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Lettera aperta agli amici nel tempo del Coronavirus. Di Giuseppe Goisis

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3 maggio 2020

1. Essere filosofi sempre, essere filosofi nel momento della sventura
Una ricerca, consapevole e ragionevole, di un pizzico di saggezza per la nostra e
altrui vita implica il tentativo di ritmare le proprie ore, dividendole fra tensione e
impegno da un lato e rilassamento dall’altro; dunque non è frutto di cinismo se,
innanzitutto, prendiamo le mosse da un piccolo ricorso all’humour: tale ricorso può
lanciare, anche a noi stessi, un ben preciso segnale: “siamo di più delle circostanze
che ci assediano, che non ci devono far perdere la testa, sospingendoci nei deserti
della follia”.
La battuta promessa suona così, e forse strappa un sorriso iniziale, rinviandoci alla
nostra condizione di quarantena, spesso di isolamento, a ricordarci che tutti siamo
esuli rispetto a qualcosa, o a qualcuno; dunque: “Oggi non farò niente, perché anche
ieri non avevo fatto niente, ma non avevo finito!”.
La frase è attribuita ad un gatto, l’animale più geloso della propria libertà e fa
sorridere, mi sembra con finezza, perché evoca le aporie dell’inoperosità, che spesso
è più apparente che reale.
Certo, è necessaria la compassione; come ci ricorda il sensibile poeta inglese John
Donne (1572-1631): “Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è
una parte del tutto. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte
dell’umanità, e dunque non chiedere mai per chi suona la campana, essa suona per
te”. Tra parentesi, un’affermazione così grave, e nello stesso tempo tanto nitida, ha
impressionato Ernest Hemingway, che l’ha ripresa e fatta risuonare nel pieno della
Guerra civile spagnola, in un contesto impressionante, nel quale le persone, per
sfuggire alla morte, si stringevano disperatamente le une alle altre…

Da ciò la constatazione, e anche l’incitamento, a trar partito da una condizione di
obiettivo disagio per riflettere, riannodando la propria vita interiore, iniziando dalla
memoria; dalla memoria si sviluppa un germe di ripensamento e critica che può
condurci innanzi, “oltre”… Sì, perché l’esito peggiore di una crisi così tempestosa non solo sanitaria, ma anche civile ed etica- sarebbe sprecarla, trascurando di
trasformarla in uno slancio di rinnovamento che si manifesta, secondo il mio
giudizio, come necessario e urgente.
I cinque fulcri, per discernere entro il vasto mare della crisi, mi sembrano i
seguenti fenomeni, in gran parte inediti:
 L’inceppamento di certe linee motrici caratteristiche della “modernità”; fino a
qualche mese fa, le élites tecno-economiche erano ben convinte della direzione
in cui era destinata a procedere la storia, non avevano alcun dubbio, e
ritenevano di esser loro a imprimerne il movimento e a controllarlo; ora
possono accadere, e realizzarsi, diverse alternative e nessuno, in buona fede,
può affermare di sapere in che direzione e verso che mete si procederà. Un
rischio da brividi, se si vuole, ma anche lo schiudersi di possibilità inaudite, il
possibile rifiorire dello spirito di Utopia. Una mappa del mondo che non
contempli il paese di Utopia non merita uno sguardo approfondito!
 Una battuta d’arresto significativa per quel che concerne la globalizzazione:
abbiamo tutti compreso, penso, che la globalizzazione non è, come alcuni
interpreti euforici sbandierano, un’incontestabile dispensatrice di ricchezze, ma
consiste piuttosto in un’interdipendenza da batticuore, che può comportare
fenomeni indesiderabili come contraccolpi economico-finanziari, come
l’estendersi della geografia della fame e il moltiplicarsi di guerre e guerriglie e
pure di malattie, più contenibili prima del dispiegarsi di una globalizzazione
tendente a permeare di sé anche le pieghe più riposte dell’umanità mondiale.
 Si rivela fino in fondo la predominanza della tecnica e dell’economia
nell’àmbito dell’odierna convivenza sociale; già questi aspetti erano evidenti,
ma, a volte, c’è una specie di cecità sui fenomeni dominanti il nostro modo
d’esistere. In particolare, anche scelte di vita o di morte sembrano orientate dal
“dio denaro”, una divinità per nulla rispettabile, anche se diffusamente
venerata, un idolo vorace e sanguinoso che può soffocare l’esistenza di popoli
e persone, come già l’antico P.- J. Proudhon aveva anticipato criticamente, in
polemica col “profeta” di Treviri K. Marx, polemica ricostruita con acribia da
un intellettuale intransigente come L. Pellicani, da poco scomparso.
 Si è svelata appieno l’ambivalenza della parola, non semplice espressione
dell’umano, ma atto linguistico pienamente operante e influente, sensibilissimo
agli ondeggiamenti della propaganda, capace di gratificare e rassicurare, ma
anche di scatenare frenesia o panico, inducendo profondi turbamenti
nell’opinione pubblica meno cosciente e matura. In verità, a guardar bene, la
parola, una delle caratteristiche dell’umano, era stata usata così fin dai primordi
del mondo antico; l’Iliade, poema della forza, mescola continuamente duelli e
scontri, con lancia e scudo, a parole tonanti, che eccitano alla guerra,
amplificando le sue ragioni. Se ci fate caso, in questi ultimi mesi c’è stato uno
scialo di termini vagamente bellicisti e guerreschi: “potenza di fuoco”, “taskforce”, “alzare o abbassare la guardia”, laddove il contesto parla piuttosto di
sventura, o di sofferenza, e non evoca, invece, una mobilitazione di tipo
militare.
 Si evidenzia una crisi, forse irreversibile, del paradigma dell’individualismo
borghese. Tale paradigma ha goduto di una fase iniziale coraggiosa e di un
certo vigore educativo, nei primi secoli in cui la borghesia in ascesa, con
fierezza audace, sfidava il conformismo vigente: “Se anche tutti, io no”; ma
nella fase di decadenza, la borghesia si è come contratta, cristallizzata in difesa
delle sue rendite, spesso timorosa e impaurita di fronte alle novità e
l’individualismo si è trasformato, sovente, in un sostare ai “margini”,
coltivando, a volte, solo l’utile particolaristico. La questione è delicata, perché
la crisi di tale paradigma potrebbe comportare l’elisione di alcuni diritti
individuali, peraltro spesso più proclamati che davvero tutelati; il punto
decisivo mi sembra: che non sopravvenga, a rimpiazzare l’archetipo
individualista, un archetipo di carattere autoritario, lavorando piuttosto a
sostituire all’idea di individuo quella più comprensiva di persona (questo, tra
parentesi, il terreno filosofico sul quale mi impegno attualmente: approfondire
in maniera adeguata, e non equivoca, l’idea di persona).
***
Parlando ad un amico come parlassi a me stesso, o a uno di famiglia, mi
permetterei di mettere in guardia da ogni troppo facile semplificazione; con una
fisionomia fobica e ossessiva, circolano troppe teorie del complotto e troppe
narrazioni cospirazioniste, che cercano invano d’illuminare il lato oscuro della storia.
Beninteso, non che i complotti non esistano e che non siano influenti, in qualche caso
decisivi; è che, va ribadito, non spiegano tutto e, principalmente, non giustificano le
inerzie, le rinunce e le viltà.
Ciò che scrivo, in questo tempo di bufera e sventura, può sembrare poco
opportuno, e perfino presuntuoso, parendo mirare ad afferrare l’inafferrabile, come
quelli che fantasticano di vaccini futuribili, o di panacee miracolose, o come quelli
che usano espressioni sterilizzate, come “deceduti”, snocciolando fredde sequenze di
numeri, ma dimenticando che dietro a ogni numero si può intravedere il volto di un
uomo o di una donna. Forse non vorrei scrivere della situazione in cui ci troviamo,
ma è una necessità imperiosa che provo, essendo noi tutti, come ci ricorda l’antica
saggezza orientale, come “perle unite ad un unico filo”; e questo filo, che sorregge il
tutto, non è meno importante, anche se meno luccicante, delle singole perle, e può
chiamarsi: “cooperazione”, “solidarietà”.
Da ciò scaturisce l’ammonimento ripetuto ogni giorno da un grande filosofo, da
poco scomparso, Aldo Masullo: “Ci si salva assieme”; al contrario, l’odierna
nebulosa di parole e immagini tende a curvarci sul nostro istinto di sopravvivenza,
quasi a persuaderci ad adottare uno stile di presenza minimale nel mondo, sentendoci
i soli ad aver diritto alla salvezza, con i famigliari e gli amici che ci sono più cari,
ripiegando, come mi ricorda Andreina Corso, poetessa amica, sul nostro piccolo e
odioso “Io” e usando la cittadella interiore come una tana, che previamente abbia
alzato ogni ponte levatoio.
Occorre invece, come sottolineava Bernard Lazare, che contribuì a riaprire il “caso
Dreyfus” e collaborò con Péguy, possedere una mente pronta alle novità e “avere un
cuore che vibra a tutte le ingiustizie del mondo”; ma bisogna aggiungere: non sentirsi
mai esponenti del “partito dei buoni”, che è spesso il partito degli ipocriti e dei
farisei, non volendo infine allontanarsi troppo da momenti di ascolto e silenzio, quel
silenzio che nutre, di nascosto, e dà linfa alle parole, impedendo che crepitino come
foglie secche, senza più alcuna risonanza profonda.
Domandano ai filosofi: come sarà l’umanità, dopo queste tempeste? Vi sarà un
“homo homini virus”, o come ci dicono, con un piglio un po’ oracolare, Recalcati e
Ravasi, s’inaugurerà la nuova fratellanza? Se siamo onesti, se abbiamo abbandonato
la pretesa di avere la sfera di cristallo come nelle illusioni infantili, dobbiamo
riconoscere che non lo sappiamo; dipende dalla libertà responsabile di ognuno e di
tutti. E dall’intensità delle domande che trafiggeranno le nostre coscienze e, si spera,
le metteranno in moto.
È necessario che in queste settimane (o mesi?) realizziamo una certa distanza
fisica, ma siamo, invece, vicini nelle menti e nei cuori, usando sempre una franchezza
radicale; dobbiamo tuttavia riconoscere che le tassonomie e le disposizioni dei corpi
sono importanti, direi decisive, anche se trascurate dal pensiero occidentale
prevalente, caratterizzato, direi ossessionato, da un abuso dell’astrazione, un abuso
quasi tirannico, che ci rende smemorati e dimentichi dell’uomo in carne e ossa e della
sua ricerca di libertà, quella libertà “ch’ è sì cara/ come sa chi per lei vita rifiuta”.

1. Ancora sul soffrire e, in particolare, sul dolore degli anziani
L’archetipo di questi giorni può essere considerato Antigone; il personaggio della
tragedia sofoclea si orienta in solitudine verso il Bene, riferendosi alla cecità e alle
vertigini di Edipo, del vecchio Edipo, senza spezzarsi per il suo dramma incombente,
ma, al contrario, impegnando tutta la vita nella cura della pietas, nell’esercizio
dell’umanità.
Non badiamo a quanti ci dicono che basta rimanere umani, quasi che l’umanità sia
una rendita inesauribile, un tesoro riposto nello scrigno e al quale si può attingere
tranquillamente; la perdita del nostro senso di umanità è sempre in agguato e dunque
dobbiamo cercare, ogni giorno, di diventare un poco più umani. E forse non bisogna
ascoltare quei profeti di sventura che, cupamente, ci invitano a scorgere tenebre
dovunque, come delle upupe ritte sulle rovine; il rischio, come dicevo, è semmai di
non fare un “uso” alternativo della crisi incombente, compito che, con evidenza, è
assai più facile evocare che realizzare.
L’ansioso disorientamento conduce a rivolgersi da ogni parte, cercando un punto
fermo dal quale poter ricominciare; ci si appella agli scienziati, ma quando essi
dichiarano il loro “limite” (cosa che non fanno sempre), ci si volge altrove, agli
statistici, agli uomini delle previsioni, ma quando anch’essi confessano che la loro
non è una marcia trionfale, secondo i moduli di un invecchiato positivismo, allora
s’interpellano altre categorie di tecnici, alla ricerca della risposta sicura e che meriti
una venerazione fideistica. Qui si nasconde, a me sembra, un grave rischio:
l’aspirazione/invocazione agli uomini sapienti o forti, capaci, o così si crede, di
troncare di netto ogni chiacchiera; da ciò alla seduzione dell’uomo solo al comando
non c’è che un passo, un passo percorribile più agevolmente e rapidamente di quanto
non si possa pensare…
Quel che mi ha più colpito è il dramma delle case di riposo e delle residenze per
anziani divenute “case di non riposo”, luoghi di quegli assembramenti che ai più
giovani vengono sconsigliati, o addirittura vietati; ciò che è accaduto, e che purtroppo
continua ad accadere, mi commuove, non mi vergogno a dirlo; dovrebbero essere, in
un certo modo, come luoghi sacri all’umanità, misurandosi la qualità di una civiltà da
come si trattano le persone più fragili, logorate ormai dal mestiere di vivere . Invece,
per chi le conosce da vicino, case in cui regna l’odore dei medicinali, delle minestre
un poco scadute e dei pannoloni non sempre ricambiati a dovere. Vi domina un’attesa
senza attenzione, senza un lume di speranza, attesa di un esito che può ancora
impaurire; stringendosi insieme in questa attesa, si moltiplicano, a volte
inconsapevolmente, le occasioni del contagio e si muore senza una lacrima e una
mano stretta per l’ultima volta… E se non vibrano per questo le corde della nostra
umanità, che cosa le farà vibrare?

2. Le emozioni sono ambigue
C’è un’ambivalenza delle emozioni; nella parola “emozione”, si può sentire la
radice del movimento. C’è qualcosa dunque nelle emozioni d’inevitabilmente
positivo: esse conducono cioè lungo la strada che apre all’azione, disincagliandoci da
un atteggiamento meramente passivo. Ma si cela anche un rischio innegabile, il
“patismo”, l’ “emoticrazia”, cioè il dominio pressoché assoluto delle emozioni sulla
nostra vita, in maniera che ogni ragionevolezza e ogni misura di ponderata
valutazione possono venir travolte.
Come accennavo prima, i due maggiori pericoli, legati ad un’accorta
manipolazione dell’opinione pubblica, mi sembrano il Nazionalismo e lo Statalismo,
legati al clima, sempre più diffuso in Europa, ma non solo, del Neopopulismo.
Nazionalismo, Statalismo e Sovranismo convergono nel liquidare ogni forma di
“lentocrazia”; lo stesso tema dei Diritti fondamentali, troppo spesso solo proclamati,
viene ridotto a un ingombro, a una specie di lusso che non potremmo coltivare in una
situazione di emergenza; bando alle discussioni, dunque, occorre un decisore “legibus
solutus”, con le mani libere per agire con efficacia, senza quelle interminabili
discussioni che dividerebbero soltanto.
Anche Hitler, nel Mein Kampf, parlava continuamente dei suoi avversari come
“peste”, come virus e usava anche termini vagamente familiari, come “nemico
invisibile”, “avversario perfido e subdolo”.
I lavori del politologo Marc Lilla evidenziano, in particolare in Occidente, un vero
e proprio naufragio della ragione, e i popoli, spesso lavorati in profondità dalla
propaganda, provano una forte inclinazione a barattare la libertà, o meglio i suoi
spazi previsti e concessi, con la sicurezza.

Dopo Tucidide, Boccaccio e Manzoni, anche A. Camus e J. Saramago hanno
descritto, in tempi più recenti, lo scenario della peste con tutte le sue assurdità e
tentazioni; in un tale clima, l’uomo si rivela nella sua nudità essenziale, ma anche in
quei lati, sgradevolmente egocentrici, se non crudeli, che una sottile vernice ricopre,
solitamente, nella vita quotidiana cosiddetta “normale”.
Bob Dylan, il bardo di tanti anni di contestazione, ha composto di recente una
ballata (I contain multitudes) che coglie l’essenziale, intonando un canto pieno di
nostalgia, ma non sentimentale e lacrimevole; soprattutto sostituendo, ai numeri e alle
vane parole, i nomi: evocare i nomi significa richiamare i simboli, le immagini e, con
la fantasia, rivedere volto per volto, impedendo che l’oblio ricopra la parte di umanità
perduta.

3. Riflettendo su Venezia: la cultura costituisce il vero antidoto al virus
Invito gli amici, o almeno le persone disposte ad ascoltare, a considerare la sorte di
Venezia: una situazione che ha il sapore di un simbolo, una metafora delle cose
grandi, e belle, che l’umanità ha saputo costruire, e in pari tempo una città
fragilissima, al cospetto della quale, tutti i giorni, ogni persona è sospinta a
considerare i “limiti” della nostra azione. Venezia, una città che muore, in assenza di
ciò che l’ha fatta vivere e, secondo il pensiero calcolante, prosperare: cioè la
monocultura del turismo.

Venezia, una città all’ultima chiamata, prima di contrarsi e accartocciarsi su di sé,
sommersa dall’ “Acqua granda”, poi abbandonata, per i rischi del contagio, dalle folle
di turisti che la percorrevano,. Quelli che minimizzano, non sembrano davvero
comprendere la portata epocale di ciò che è accaduto: le due evenienze consecutive,
quella dell’eccezionale marea e quella del contagio che ricorda le pestilenze del
passato, hanno messo a nudo contraddizioni e grandi problemi insoluti, rivelando
anche una certa mediocrità, con alcune eccezioni, del ceto amministrativo e politico
egemone. Qui non è in gioco la singola personalità, magari con la sua incoercibile
emotività, ma proprio il modo sistematico di concepire e praticare l’amministrazione
di una città così delicata e “speciale”.
Ora, come fosse un gioco da bambini, si vuole invocare: “liberi tutti”, ma non si
vuol guardare ai dilemmi crudeli che sorgono, dilemmi che riguardano l’alternativa:
salute/nuovo afflusso di turisti; e gli esperti ammoniscono che non c’è dubbio che ci
sarà una seconda ondata, riguardando il dubbio, soltanto, il momento in cui si
manifesterà. Si ricorda il grande pittore giapponese K. Hokusai, che disegna delle
onde enormi, e accanto dei pescatori piccoli piccoli, smarriti al sopravvenire dei
gorghi, destinati, in maniera impressionante, a venir travolti e spazzati via. Noi siamo
quei pescatori e il ritorno in forze della Natura depauperata ci fa esistere “con timore
e tremore”…
Come sottolinea lo studioso N. Ferguson, in tutte le pestilenze e le epidemie del
passato c’è sempre stata una seconda ondata, spesso ancor più letale e pericolosa
della prima; anche nel caso della “Spagnola”, occorre fare riferimento al suo ricorso
impressionante del 1918, che ha mietuto ancor più vittime.
Quel che manca è il nutrimento dell’anima, la cultura come alimento della mente,
assiduo e profondo: è questo l’antivirus dimenticato, è questo il vero vaccino da non
attendere oltre, che persuaderebbe alla resilienza e a non ammainare le bandiere
dell’utopia e dell’alternativa.
Si è detto, con arrogante ignoranza, che “con la cultura non si mangia”; una tale
affermazione, mi permetto di ribadire, è da sciocchi e viene negata proprio da quel
buonsenso pieno di esperienza a cui fa appello: qual è il fascino, non poi tanto
segreto, di città d’arte come Venezia e Firenze, ma anche Pienza e Siena? Non risiede
proprio la loro seduzione nei musei, nelle pinacoteche, nei palazzi e nelle chiese? Del
resto, qualcuno di questi arroganti difensori di un “presentismo” e di un
“brevetempismo” che tutto soffoca ha fatto ammenda, in un differente contesto,
legando magari la cultura al turismo, e quindi evidenziando la componente
utilitaristica che si celerebbe entro la cultura; ma, naturalmente, l’interesse
economico costituisce solo uno spicchio della questione: cultura. La verità mi sembra
questa: quando tutti urlano e battono i pugni sul tavolo, diventa difficile argomentare
con il filo di voce che ci è rimasto.

4. Perché è necessario, particolarmente in questo tempo, praticare alcune virtù
La parola virtù è quanto mai impopolare nel panorama odierno della riflessione,
salvo qualche sporadico tentativo di valorizzarla; eppure, di fronte al rapido e
drammatico crollo di tutto il sistema di valori dell’attuale società e all’espandersi del
nichilismo, come sottolineano A. Finkielkraut e M. Onfray, sarebbe necessario e
urgente ritornare a praticare alcune virtù in maniera particolare, con forza e
determinazione.
È vero, la filosofia non consola, come già scriveva un allievo di Nicola
Abbagnano: Giovanni Cairola, scomparso prematuramente, ma la filosofia è un
farmaco, che sostiene la mente, rendendola più ardita e resistente (anche qui, tuttavia,
c’è dell’ambivalenza, perché il potere critico della filosofia può destabilizzare gli
spiriti troppo deboli: l’espressione greca phármakon indica sia la medicina, sia il
veleno, dipende dalle dosi, un po’ come avviene per il curaro).
Se nel III libro della Repubblica, Platone critica la medicina, sembrando
allontanarla dalla filosofia, Epicuro, invece, insiste sull’analogia, e propone, con la
filosofia, di curare la mente e, attraverso la mente, arrivare al risanamento del corpo:
Gli Stoici, infine, propongono diverse vie per accedere a quell’assenza di agitazione
(atarassia) che è individuata come l’autentica mèta da raggiungere con l’esercizio
delle virtù.
In un’età di crisi profonda, l’etica stoica, basata sul sopportare e sul rifiutare il
superfluo, sembra particolarmente adatta per sostenere la propria mente; certo, è più
un’etica negativa che positiva, fondata sul distacco e, almeno apparentemente,
“fredda”, sembrando incapace di slanci d’amore e amicizia. Ma penso che si tratti,
soprattutto, di un’apparenza. Il punto è che lo Stoicismo non consente di coltivare
illusioni, presentandosi piuttosto come medicina che come consolazione.
In una condizione di sofferenza, tutti siamo portati, spontaneamente, a consolare
gli amici, rassicurandoli semplicemente, magari con un maldestro colpetto sulla
spalla, o anche andando in cerca di qualche causa che potrebbe spiegare l’annidarsi, o
anche l’espandersi, di qualche “male”. Così insistono, nella Bibbia, gli amici di
Giobbe, in parte consolando, in parte suggerendo di cercare qualche colpa, capace di
motivare la sventura e giustificarla.
In sintesi, in un tempo di morbilità e pandemia, tre mi sembrano le virtù decisive;
prima di tutto la compassione, che ci fa volgere, e ci tiene rivolti, verso gli altri
uomini, impedendo che ci muriamo nella “nuda vita” (Zôe, vita meramente
biologica), senza più consistere in Bíos (la vita ricca di tutte le sue potenzialità); la
compassione è attiva, generando la pietà, l’umanità e il senso della giustizia; aiutare
gli altri e averne cura non è però facile: a curvarsi assiduamente verso l’altro, ci si
spezza la schiena, ma, più ancora, ci si spezza il cuore, collocandosi lo slancio fattivo
verso l’altro in una parte del cuore, e permanendo nella rimanente parte del cuore
un’indomabile curvatura egocentrica.
La pratica della seconda virtù: uno stile di coraggio e franchezza, una sincerità
radicale, quella che gli antichi chiamavano parrhesia, cioè il parlare audace e netto
anche di fronte alle lusinghe e alle minacce di un tiranno.
Infine, la terza virtù: la speranza ragionevole e consapevole, intesa come apertura
verso il futuro, e non è vero che la speranza uno non se la può dare, essendo vero
invece che la speranza va coltivata e che la sua bandiera non va mai e poi mai
ammainata.
Tutto ciò richiama quel che dicevo all’inizio del capitoletto: la filosofia non è una
consolazione a buon mercato, ma un genuino farmaco, non una cura palliativa, ma
una medicina efficace per la mente, con cui ci si prende cura di sé e degli altri.
In questo tempo sospeso, appare chiaro il trionfo della contingenza; quelle stesse
circostanze che per taluni si configurano come una spina acutissima che indebolisce,
per altri costituiscono un tonico potente; è stato ricordato come, durante un’epidemia
di peste bubbonica nell’Inghilterra del 1665, Isaac Newton, fuggiasco da Cambridge,
scoprì, in un anno, le leggi di gravitazione universale e i rudimenti del calcolo
infinitesimale; e nel 1820, John Keats, in quarantena a Napoli per un’epidemia di
tifo, compose alcune liriche fra le più belle e qualche lettera che, ancor oggi, desta la
nostra commozione.
Allora, porre al centro la contingenza significa adottare una prospettiva panpossibilista: è probabile, molto probabile che non vi sarà una “normalizzazione”,
come bisbigliano, con poca fantasia, i più pigri, ma piuttosto una “trasformazione”;
comunque, l’idea di una prosecuzione ordinata dell’attuale sistema socioeconomico
mondiale, e degli odierni modi di convivenza, appare poco plausibile, tante
contraddizioni si sono accumulate, tante difficoltà oggettive e disagi, che fanno
crescere la critica diffusa come un’ondata di piena.
Personalmente, vedo l’Università in una luce lontana, con quel distacco che
comportano alcuni anni di pensione; ma non è spenta la passione educativa, per cui
leggo con vitale interessamento le cose che, da Berlino, scrive un’antica allieva,
Laura Candiotto. Anche lei parla della solitudine e del tema della distanza/vicinanza e
cerca di distribuire un qualche incoraggiamento, non mancando però di riferirsi a quel
disincanto che abbiamo acquistato vivendo.
Darei forma così al necessario ed essenziale, lasciando cadere il superfluo: occorre
tentare di umanizzare la solitudine, con ogni pratica di pensiero, con ogni ricerca
gestuale; ho evocato il tempo sospeso e la contingenza, ma questo rinvia, nel
linguaggio filosofico, alla finitudine o finitezza, al “limite” intrinseco dell’umano,
che l’uomo ogni giorno, tuttavia, desidera trasgredire. È stato detto che la fragilità è
una virtù; non mi pare proprio, anche se non bisogna vergognarsi della propria
fragilità. La virtù, come ci insegnano gli Stoici, non consiste nell’essere affetti dal
dolore, ma nella maniera con cui lo si sopporta, ricordando che si può sostenere quasi
tutto ciò che ci capita, se si posseggono, tenendole strette, delle salde motivazioni. Ho
scritto “quasi tutto”, perché non posso ignorare, naturalmente, che ci sono dolori che
schiantano la persona, irrimediabilmente.
Spostando la lente dell’attenzione dall’esperienza interiore al vincolo che tutti ci
lega, la preoccupazione cresce quando si considera la montante pervasività del
metodo clinico, che, quando permea tutto, rischia di diventare invasivo, in qualche
caso perfino distruttivo.
Occorrerebbe contenere, a mio giudizio, la medicalizzazione globale della società,
quella medicalizzazione già denunciata, negli anni Settanta del Novecento, da Ivan
Illich.
Dispiegare dunque ogni slancio dell’intelligenza e del cuore, senza che la
preoccupazione dell’immunitas ci domini completamente; l’ansia è come l’Idra
mitica che, tagliata in un punto e sconfitta, tende a risorgere continuamente,
pullulando con mille volti nuovi…
Non si tratta, beninteso, di rassegnarsi alla propria afflizione, ma di comprenderla
nelle sue origini e di tentare di sopportarla (la sofferenza indica precisamente
l’attitudine a sopportare con tutta la forza possibile, a differenza del dolore generico,
che ci accomuna, senza residui, al mondo animale).
Aggiungo sommessamente che occorre comprendere fino in fondo come la
medicina sia una disciplina fallibile, che sembra aderire compiutamente alla “logica”
popperiana della scoperta scientifica: ciò la rende umana, non certo disprezzabile.
Il problema consiste, piuttosto, in quella “freddezza” che sembra caratterizzare
l’approccio di certi medici: si tratta, mi sembra, non di un mero problema
d’inadeguatezza comunicativa ma di un orientamento sterilizzato, nel quale il
momento della competenza tecnica tende a prevalere su ogni altro aspetto. Quando la
clinica, o l’ospedale, si organizzano come un’impresa, l’ammalato, più che un
soggetto cooperante della cura, si sente ridotto a oggetto, a “cosa” dolorante e isolata.
Si aggiunga che abbiamo fatto di tutto per cancellare la “naturalità” della morte,
posta letteralmente “fuori di scena” (cioè ob-scaenam); ma quel che è forzatamente
cacciato, ritorna, con forza, come un fantasma angoscioso e la sua insensatezza, la
sua assurdità acquista un aspetto traumatico. Solo oggi appare la profonda verità di
questa affermazione del terribile Blaise Pascal: “ebbene, quando si muore, si muore
soli”.
Filo per filo, entro l’odierna convivenza umana, occorre ricostituire la trama non
solo del vivere biologico, ma del cooperare, dell’amare e del lottare, sostenuti dal
coraggio e dalla speranza, umanizzando il nostro vivere finito come spazio del
“limite”, come l’ambito di quella vulnerabilità che, proprio perché così umana,
costituisce una dimensione essenziale del “nostro” con-vivere. Vulnerabilità che
invoca la “cura” e la delicata tenerezza.
Dunque, tenerezza contro tecnicismo asettico.

5. Una minuscola conclusione che ci riconduce all’inizio
Adesso dobbiamo finire, davvero; siamo tutti attesi da qualche parte, da qualche
nuova contingenza, ma forse è stato bello chiarirci un poco, spero sia stato gradito
anche dai miei pochi, e del tutto eventuali, lettori.
Correndo verso la fine, possiamo riassumere così: viviamo una specie di distopia
realizzata, come quella presente in Autori quali Orwell, Huxley, Burgess, Zamjatin,
Bradbury, Le Guin, Atwood e tanti altri. Viviamo un’esperienza che pare un sogno ad
occhi aperti, per meglio dire un incubo (spero tanto che molti non percepiscano
questo vero e proprio incubo come un sogno!).
In questa condizione, si manifesta, secondo me, tutta la paradossale ed enigmatica
natura dell’uomo: indipendente, ma assieme dipendente, nobile e straccione, un “re
decaduto”, come lo chiamava Pascal. Nel vivere e percepire questo incubo,
simultaneamente mobile e immobile, avverto qualcosa di surreale: guardate le piazze
vuote, rimirate le strade avvolte nel silenzio; è un silenzio che sembra custodire un
enigma, o forse non c’è nessun enigma, è solo la nuda realtà, capace però di svelare la
non centralità dell’uomo, la sua assenza, forse non così transitoria…
Ricordate le Muse inquietanti di Giorgio De Chirico, i suoi oggetti e manichini,
insieme così familiari ed estranei? È più che la realtà, ma è una realtà nuova rispetto a
quella a cui eravamo abituati, solcata da continui e martellanti inviti; ma, dietro a
ognuno di questi inviti, occorrerebbe facessimo delle precisazioni: sì, lavarsi le mani,
ma non con un gesto alla Pilato, perché la gente urla più forte: “liberate Barabba”…
E poi: indossare le mascherine; sì, ma non le maschere, quelle bisogna toglierle
perché il tutto non si trasformi in un carnevale macabro.
Quel che occorre, in definitiva: saper scrutare nell’inverno il seme della primavera,
la possibilità che germogli il novum più fresco e verde.
Cercare, cercare, cercare ancora per andare verso la mèta, per scoprire, alla fine,
che siamo ricondotti all’inizio, sentendo però che tale inizio è meraviglioso, come lo
vedessimo per la prima volta.
Sento che l’uomo supera infinitamente l’uomo; l’umanità attuale sembra situarsi
oltre alle forme contrapposte dell’animale e dell’intelligenza artificiale, e pare
puntare decisamente verso l’Homo Deus, come argomentano gli scritti suggestivi di
Harari13; paradossale ed enigmatica creatura/creatore l’uomo, paradossali ed
enigmatici esseri che noi stessi siamo, sorgenti di un’interrogazione perpetua che
rivolgiamo, su di noi, noi stessi. Ma quanti ostacoli, quali tremende cadute in questa
lenta e lunga ascensione dell’umanità, priva di qualsiasi automatismo…
I poeti sono come i banditori dell’umanità, i battistrada, che intravedono la via e
intuiscono il traguardo; i filosofi vengono dopo, ad argomentare e a volte a
sistematizzare, se son capaci di non allontanarsi troppo dalla Terra.
Allora concludo con un poeta e una poesia: il poeta è Eugenio Montale e sembra
scorgere la mèta ed esprime l’intrico che ho cercato d’illustrare, con parole più
ispirate ed efficaci:

I limoni (Ossi di seppia, 1925)
Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall’azzurro:
più chiaro si ascolta il sussurro
dei rami amici nell’aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest’odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l’odore dei limoni.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d’intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno piú languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.
Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.

Giuseppe Goisis, già professore ordinario di Filosofia politica e Politica ed etica  all’Università Ca’ Foscari di Venezia, è impegnato sul versante dei Diritti umani collaborando, fra l’altro, con il CESTUDIR (Centro Studi Diritti dell’uomo) e con l’Ateneo Veneto. È autore di monografie riguardanti temi e figure del pensiero politico fra Ottocento e Novecento, tra cui Sorel e i soreliani italiani (1983), Mounier fra impegno e profezia (con L. Biagi, 1990), Eiréne. Lo spirito europeo e le sorgenti della pace  (2000), Il pensiero politico di A. Rosmini (2010); ha curato il volume I volti moderni di Gesù (2013) e i tre volumetti: Tommaso Moro (2015), Hitler e il nazismo (2016), Tommaso Moro-Antologia (2017), distribuiti con il “Corriere della Sera”; ha composto il saggio Una guerra lungamente attesa, in Nati per morire, il Mulino, 2015. Il suo ultimo libro: Dioniso e l’ebbrezza della modernità. Sei saggi tra filosofia e società, Mimesis, 2016. Per la rivista “Etica per le  professioni” ha scritto il contributo: Postverità e fake news.

(In copertina: libro di Giuseppe Goisis “Un posto vale l’altro”, 2004)

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