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Giornata della Memoria: Noi bambine ad Auschwitz

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“È incredibile constatare come la memoria sia un filo sottile, che rischia sempre di spezzarsi. Basta un niente e nessuno ricorda più quello che è successo”

È facile dimenticare. È facile avere la memoria corta e dimenticare parti di storia che hanno segnato il nostro vissuto se non si continua a tramandarli. Basta guardarsi attorno per capire quanto alto sia il rischio di -fobia, qualsiasi essa sia. Una fobia che ci mette poco a sfociare in odio e che, purtroppo, finisce per contaminare anche qualcosa come lo sport, dimenticando che una volta si fermavano le guerre per permettere lo svolgimento delle Olimpiadi.

Per questo è importante, nel nostro piccolo fare qualcosa. E in queste pagine, il mio qualcosa è, ogni anno, parlarvi di un libro dedicato alla Memoria, un libro con testimonianze in grado di scuotere le coscienze e riportarci lì, ai momenti bui d’Europa, sperando che almeno nel nostro presente di essere capaci di accendere almeno una candela.
Quest’anno vi parlo di un bellissimo libro edito da Mondadori di Andra e Tatiana Bucci; Noi, bambine ad Auschwitz.

La sera del 28 marzo 1944 i violenti colpi alla porta di casa fanno riemergere negli adulti della famiglia Perlow antichi incubi. La pace trovata a Fiume, dopo un lungo peregrinare per l’Europa cominciato agli inizi del Novecento in fuga dai pogrom antiebraici, finisce bruscamente: nonna, figli e nipoti vengono arrestati e, dopo una breve sosta nella Risiera di San Sabba a Trieste, deportati ad Auschwitz-Birkenau, dove molti di loro saranno uccisi.
Sopravvissute alle selezioni forse perché scambiate per gemelle o forse perché figlie di un padre cattolico, o semplicemente per un gioco del destino, le due sorelle Tatiana (6 anni) e Andra (4) vengono internate, insieme al cugino Sergio (7), in un Kinderblock, il blocco dei bambini destinati alle più atroci sperimentazioni mediche.
L’assurda e tragica quotidianità di Birkenau penetra senza altre spiegazioni nella mente delle due bambine, che si convincono che quella è la vita «normale». Il solo modo per resistere e sopravvivere alla tragedia, perché la consuetudine scolora la paura.
Finché, dopo nove mesi di inferno, ecco apparire un soldato con una divisa diversa e una stella rossa sul berretto. Sorride mentre offre una fetta del salame che sta mangiando: è il 27 gennaio 1945, la liberazione. Che non segna però la fine del loro peregrinare.
Dovrà passare altro tempo prima che Tatiana e Andra ritrovino i genitori e quell’infanzia che è stata loro rubata. Le sorelline trascorreranno ancora un anno in un grigio orfanotrofio di Praga e alcuni mesi a Lingfield in Inghilterra, in un centro di recupero diretto da Anna Freud, dove finalmente conosceranno la normalità.

Un libro come Noi, bambine ad Auschwitz è un pugno nello stomaco. Un pugno che si trasforma in lacrime, pagina dopo pagina, racconto dopo racconto. Un pugno nell’incapacità di comprendere come degli esseri umani siano stati in grado di guardare negli occhi intere famiglie, interi gruppi di bambini e mandarli a morte certa solo per il fatto di appartenere ad un’etnia piuttosto che un’altra. Andra e Tatiana utilizzano una prosa molto diretta e semplice e questo riesce ancora di più a farci entrare nel racconto e soprattutto nel loro percorso di consapevolezza.

La storia del piccolo cugino Sergio, internato con loro a Birkenau e poi spedito come cavia dai nazisti alla Bullenhuser Damm di Amburgo ed impiccato successivamente, è una delle storie più tragiche e dolorose che abbia mai letto nei libri dedicati alla Shoa. Una ferita che si forma anche nel lettore e che fatica ad andare a via, anzi, che non se ne deve andare, perché il ricordo di quello che è successo ad un bambino così piccolo possa ritornarci alla mente ed evitare, nel nostro piccolo, che cose del genere possano ricapitare.

Questo libro è un monito al nostro presente, è una ferita che crediamo di rimarginare in qualche modo ogni 27 gennaio, ma che non sarà mai così. È un invito a non dimenticare, a farci noi portavoce di quello che è successo e continuare a tramandare alle nuove generazioni i racconti, le immagini.

“Ci domandano spesso cosa c’entri Auschwitz con tutto questo, se la memoria di ciò che è stato possa aiutare a comportarsi meglio. Noi crediamo che dovrebbe, anche se, a giudicare dai fatti, a volte ci sentiamo scoraggiate. Ma poi, guardando negli occhi i giovani che ci ascoltano, ci tornala speranza.”

Noi, bambine ad Auschwitz è un libro che tocca il cuore, la mente, a pancia, che si legge con attenzione e coinvolgimento, pagina dopo pagina, ma è anche un inno alla speranza, un inno alla possibilità di ricominciare una vita anche dopo tutto quello che si ha subito. Un libro bellissimo, da leggere nelle scuole, nelle case, dovunque, tramandando una vicenda dolorosa della nostra Storia.

Sara Prian
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