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I figli, i bambini, sono le altre vittime di un femminicidio. Di Andreina Corso

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Il Governo, un decreto per i figli orfani delle vittime del femminicidio. E noi.

Pur con colpevole ritardo, il decreto ministeriale a favore dei figli orfani di madri ammazzate dal loro padre o dal compagno, è uscito dalle aule parlamentari e si appresta a un’immediata applicazione. L’ha annunciato il ministro dell’Economia Gualtieri.

Sono dodici milioni stanziati per finanziare borse di studio, sostenere spese mediche, formazione e inserimento al lavoro rivolte a ‘loro’, vittime del carnefice che li ha privati della madre.

Nulla sarà come prima per un bambino che ha vissuto quella tragedia, il mondo intorno cambia, tutto muta, anche il colore del cielo. Si spegne la fiducia negli altri, nella vita, eppure lui, lei, con quei pochi anni sulle spalle violati, con il cuore preso a sassate, devono andare avanti lo stesso, con quell’ergastolo esistenziale fatto di dolore, rabbia e risentimento.

Spesso, prima del femminicidio, i bambini a scuola rivelano il loro malessere, sono stanchi, svogliati, talvolta sgarbati, oppure tristi, di una tristezza malata, indefinita e infinita, sapendo che il loro ritorno a casa non sarà sereno. Urla, litigi, botte, che i loro occhi innocenti vedono infierire sul corpo della madre. Vorrebbero aiutarla, ma non ce la fanno, si chiudono in una stanza e si sentono in colpa per non averla difesa. Qualche volta i figli più grandi, hanno tentato di fronteggiare il padre, di impedirgli di avvicinarsi alla madre e anche loro sono stati picchiati con furia omicida.

E il mattino dopo, a scuola, questi bambini, quegli adolescenti diranno che sono caduti dalle scale, o che sono inciampati contro un armadio, difficile che parlino, hanno paura e devono anche affrontare lo studio, per evitare di essere rimproverati dagli insegnanti.

Sconfitta su sconfitta, questa la loro vita, anche prima del peggio.

Poco si parla e si dice, a scuola, di questi bambini. Poco si sa e si fa. Che ne sappiamo di quel processo lungo e tormentato di un bambino che respira violenza in casa e che a scuola, fra i banchi dell’aula mostra irrequietezza, è distratto, non si applica, non ascolta, con il risultato di trovarsi tutte queste cose scritte sulla scheda di valutazione, che la madre riceverà dalle mani degli insegnanti. Ci si immagina un dialogo imbarazzante, un ragionamento fra sconosciuti, un vuoto non colmato tra la vita della scuola e la vita che c’è.

Signora, suo figlio è troppo distratto, si muove in continuazione, non segue le lezioni, non fa i compiti.
Sì, è vero, a casa gli parlo, cerco di fargli capire l’importanza della scuola.
Signora, forse è un disturbo dell’attenzione, non sarebbe il caso di farlo aiutare, consultare qualcuno, magari uno psicologo?
Va bene, ci penso e poi le so dire.

Nel salutare l’insegnante, la madre sente che vorrebbe parlare, dire la verità, comprende che dovrebbe forse spiegare, raccontare, avrebbe bisogno di un rapporto umano. Ma come si fa, come si può scavalcare il muro della paura, della vergogna di trovarsi a vivere una situazione così brutta che ricade purtroppo sul figlio. Si sente morire, ma sceglie di non dire niente.

La madre è appena fuori scuola, quando incontra le madri dei compagni di classe di suo figlio. Una di loro le si avvicina e si lamenta che a causa di ‘suo figlio’, il programma non va avanti, le dicono che alza le mani, risponde male e dice parolacce.

La madre, umiliata e ferita, promette, anche a loro che gli parlerà e insieme comprende perché suo figlio non è mai invitato alle feste di compleanno dei compagni.

La madre rientra a casa, guarda suo figlio e non gli dice niente. Sa che si avvicina il momento del rientro a casa di quell’uomo che ancora turberà la loro vita. La scheda di valutazione la nasconde fra la biancheria in camera da letto. Prepara la tavola e accarezza suo figlio, prima piano, poi lo stringe forte, senza parole.

Quella stretta potrebbe essere l’ultima, perché quello che sarebbe suo marito secondo la legge, ha promesso che prima o poi l’ammazzerà, che a casa comanda lui e lei deve ubbidire e basta.

I vicini si sono abituati alle urla della donna, soprattutto di notte, ma le pareti che dividono le case, non sono dure quanto quelle dei cuori che scelgono di non intervenire, che non chiamano la polizia, che non sanno mai niente.

Non hanno sentito niente, quegli ignavi che Dante ha spedito in Inferno, che agli odiosi microfoni di cronisti pronti a tutto e con il pelo sullo stomaco, una volta che la madre è stata ammazzata, diranno che andava tutto bene, che lui, l’assassino, sembrava una brava persona.

Ora vien da chiedersi quanti e quali siano i silenzi che ricadono sulla vita di chi si sente in pericolo, quante e quali siano le motivazioni per prevenire, aiutare una famiglia con questi problemi.

Qualche bambino può contare sui nonni, sui parenti. Altri vengono affidati a famiglie che li possano amare, curare, accoglierli nella loro vita.

Mi ha colpito il titolo del libro di Ivano Dionigi: “Quando la vita ti viene a trovare” e parla di Lucrezio, Seneca e noi. Una riflessione profonda sulla vita “che ci viene a trovare”. E subito ripenso a quei bambini, che magari quando saranno più grandi potranno approfittare del dono in denaro previsto da quel decreto ministeriale che faciliterà alcuni momenti della vita che sarà, quando sarà ancora lei, la vita, ad andarli a trovare. Forse porterà dei doni, chissà.

Una gratitudine commossa nel titolo del libro di Dionigi mi fa pensare al perché i bambini siano visitati da tanta crudeltà e perché tutto non si spezza o si ricompone quando succedono fatti tremendi.

Invece tutto continua come prima, la sfortuna perseguita gli infelici e se questi ultimi sono bambini, il mondo non li vede, non ce la fa, la famiglia non ha forza, la scuola non ha i mezzi e le risorse per muoversi a loro favore.

Sì, il mondo va avanti, anzi, indietro, quando la vita ci viene a trovare.

Andreina Corso

(per approfondire: “femminicidio“)

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