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Dovessi ritrovarmi in una selva oscura, l’inno alla rinascita di Roan Johnson

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Dovessi ritrovarmi in una selva oscura

“Dedicato a chi continua a remare”

Finisce così, con questa frase, Fino a qui tutto bene uno dei film più significativi per la mia generazione scritto e diretto da Roan Johnson. Ed è proprio da qui che vorrei partire per parlare dell’ultima fatica letteraria del regista, Dovessi ritrovarmi in una selva oscura, edito da Mondadori.

Uno di quei libri sinceri, di quelli che arrivano all’improvviso, come un fulmine, rischiarano il buio dentro al lettore, trasformando lo stesso Roan da un Dante sperduto ad un Virgilio che ci indica la strada.

Ed ecco che allora il protagonista di questa storia a 38 anni, nel mezzo del cammin della sua vita, sembra non mancare nulla, ma mentre fa l’amore con la sua ragazza, “all’apice del piacere, una frazione di secondo a ridosso dell’orgasmo”, viene colto dalla prima “terribilità”: un dolore fitto e appuntito dietro la nuca, come un ferro incandescente che gli buca la testa. I giorni dopo prova a rifare l’amore, a masturbarsi, ma il dolore torna sempre proprio un attimo prima dell’orgasmo. Comincia un giro per cliniche e ospedali, accompagnato dalla sua ragazza, dalla madre, e dalla paura di essere destinato alla più grande beffa del destino: riuscire a eccitarsi sì, ma non poter godere mai più.

Una metafora della vita, una paura irrazionale, ma allo stesso tempo razionale che, ad un certo punto della vita, colpisce ognuno di noi. Siamo in grado di ammirare la felicità, di eccitarci all’arrivo di questa, ma al momento in cui ci ritroviamo in mezzo non sappiamo più come afferrarla, farla nostra e, appunto, godercela.

Siamo qui davanti ad un’opera che spalanca le porte di un universo interiore e che in maniera personale e astratta segue le cantiche del Sommo. C’è un momento in cui, nonostante pensiamo vada tutto bene, ci troviamo a fare un passo nella selva oscura, la “terribilità”, ci confrontiamo con i nostri primi demoni: lonza-attacco di panico, lupa-paura, leone-ansia. E con l’incontro di questi tre ci addentriamo tra la perduta gente, nel nostro “grande smatto” personale. Vaghiamo in cerca di una luce, ripercorriamo ferite di un passato ancora presente, riviviamo quei personaggi di un tempo che però hanno lasciato dentro di noi un segno indelebile. E così gli amici del protagonista non sono altro che dei moderni Farinata, Paolo e Francesca, Ciacco, Catone, Ulisse e via dicendo. Ma arriva un momento in cui, qualcosa scatta, una mano gentile, uno sguardo e le bolge iniziano a diradarsi per un purgatorio in cui si impara ad accettarsi per arrivare a quel Paradiso che ci spetta, dopo un lungo e tortuoso percorso.

Certo c’è moltissima gente fortunata che non passa queste fasi, arriva al Cielo, eppure questo libro è anche per loro. Per capire l’altra parte della medaglia e per chi, invece, si trova sperduto, e può ritrovare una luce.

Sì perché Johnson riesce con estrema abilità e attraverso una prosa scorrevole e coinvolgente, a farsi complice del lettore, a mettersi al suo livello, regalandosi e regalandoci una seduta psicologica ironica, ma ricca di profondità.

Dovessi ritrovarmi in una selva oscura è uno di quei libri in grado di salvare una vita, di aprire uno spiraglio nel cuore del lettore, donandosi con estrema sincerità e senza paura, facendoti sentire come se avessi trovato un amico di cui non sapevi di avere bisogno, ma che era lì, tra le righe di un libro che ti dà una nuova possibilità.

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