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Cimitero di Chioggia e ‘Bambini mai nati’: il formalismo che ripropone il trauma dell’aborto alle donne

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Lo scorso lunedì 25 gennaio, al consiglio comunale di Chioggia è stato approvato l’ordine del giorno presentato dal consigliere comunale e regionale Marco Dolfin, della Lega, con il quale si richiedeva di delimitare una zona del cimitero locale e dedicarla ai “bambini mai nati”.
Questo in base alla legge regionale 18 del 2010 che prevede che ogni feto abortito, in una struttura sanitaria accreditata, venga inumato, tumulato o cremato in un’area cimiteriale dedicata, a spese della struttura sanitaria stessa, sempre che ciò non venga richiesto dagli stessi genitori.
La mozione è stata accolta, approvata da 12 voti favorevoli, un astenuto e 3 voti contrari provenienti da tre figure femminili: due consigliere del PD e una consigliera del Gruppo Misto.
Già il giorno dopo l’approvazione si è manifestata la presa di posizione dei partiti e delle associazioni locali appartenenti al centro sinistra, quindi PD, Rifondazione, ANPI, Gruppo per la cura della città e Insieme Ar-Te Amare Chioggia che vedono – in primis nella legge citata e in seconda battuta nella decisione del consiglio comunale – l’intenzione di far sentire colpevoli le donne che si vedono costrette all’aborto, indipendentemente dal motivo per il quale sia necessario ricorrervi, che sia di salute, economico o di malessere, oltre a quelle che vivono il dramma del lutto per un aborto spontaneo durante una gravidanza desiderata e voluta.
L’ applicazione della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, legge 194 del 1978, che permette alle donne di poter decidere sul futuro proprio e della creatura che portano in grembo, già ostacolata dal numero di medici che non la attuano, viene attaccata anche da questa decisione.

La scelta di interrompere una gravidanza non è facile, in nessun caso. Una famiglia può soffrire nel prenderla. Una donna può essere attanagliata da dubbi e ripensamenti, e da rimorsi per tutta la vita. Ma è una decisione per la quale deve sentirsi libera. Una decisione che spesso una donna spera di poter dimenticare dopo averla presa, e relegare in un angolo della propria memoria.
Sicuramente una donna che ha dovuto compiere questa orribile scelta non deve sentirsi costretta a vedere la lapide del figlio che non ha potuto o non ha voluto avere. Non le deve essere chiesto cosa vuole che sia fatto della cassetta contenente i resti di colui o di colei di cui non sarebbe stata in grado di prendersi cura.
È un lutto, e la donna, o la famiglia, se alle spalle la donna ne ha una, e non è detto che sia così, ha diritto di viverlo come si sente, senza obblighi da parte di leggi cieche al dramma che viene consumato.
Il leghista Dolfin, già durante il consiglio, si era reso conto che il dibattito non sarebbe stato semplice, che il tema proposto necessitava molto di più dei pochi minuti che gli sarebbero stati dedicati.
Le altre consigliere donne, appartenenti al gruppo di maggioranza, non se la sono sentita di votare contro l’applicazione di una legge in vigore, e ammettono che il tema avrebbe bisogno di una trattazione ben più approfondita. Si dovrebbe cambiare la legge.

La sepoltura di un feto non dovrebbe essere fatta da un ente a priori, ma dovrebbe essere una scelta libera. E se la decisione presa fosse a favore della sepoltura, i registri che riguardano la madre dovrebbero essere riservati, non dovrebbe esserci il rischio di vedere una lapide in cui sia scritto il presunto nome del bambino e i nomi dei genitori, come in qualche occasione è accaduto, senza che nessuno fosse stato autorizzato a farlo.
Il problema non è trovare un’area da dedicare ai bambini non nati, ma far capire a chi legifera che quella di interrompere una gravidanza è una decisione che una donna si porta avanti per tutta la vita, e non serve una lapide a ricordaglielo, è la sua memoria a farlo, giorno, dopo giorno, dopo giorno…

Micaela Brombo

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