La prima impressione che mi è sorta mentre vedevo “Boyhood” e’ questa: gli attori venivano USATI. Gli attori sono sempre usati ma mai come in questo caso si usa il tempo della loro vita reale. Le rughe, i capelli, i brufoli, le acconciature.
Il film è stato girato dal 2002 al 2012 e segue, letteralmente, lo sviluppo e la crescita di Jason (Ellar Coltrane) e della sorella Samantha (Lorelai Linklater).
Buona parte del cast ha nel frattempo lavorato per altri progetti e si é via via ritrovato a scadenze regolari di un anno per il prosieguo della lavorazione.
Questo sarebbe l’aspetto “sconcertante” dell’operazione, atta non solo per creare un teaser per attirare spettatori al botteghino, irretiti da una possibile replica della fascinazione che emanano certe sperimentazioni sullo scorrere del tempo a cui ci ha abituato internet (tipo: due sorelle si fotografano ogni mattina per 12 anni et similia).
Linklater, curioso sperimentatore cinematografico con tratti vagamente nouvelle vague, in effetti segue lo svolgersi della crescita (dell’invecchiamento) di un intero cast. Sotto i riflettori almeno i due fratelli protagonisti, la madre e, in particolare modo il maschio della famiglia (famiglia per modo di dire), che ci accompagna dall’infanzia sino alla maggiore età.
In verità in questo film non succede nulla di anormale e i colpi di scena non son superiori a quelli di un plot di una comune sit-com televisiva di medio calibro. “Seven heaven” aveva più colpi di scena e più possibilità di essere parodiabile.
Linklater aveva già dimostrato di essere un autore attento a frugare nelle pieghe della sempre così poco stabile normalità. Per questo, a volte, i suoi film appaiono piani, poco affascinanti. In sala il pubblico o commentava partecipe ai sussulti e agli ostacoli di una vita normalmente americana, con madre coraggio e mariti mediamente alcoolizzati, al punto che il primo marito (che già a inizio film è separato e torna da un viaggio in Alaska per rivedere i figli) appare il miglior partito di tutti, in continua relazione con i figli, anche se sempre immaturo come un fratello maggiore e nonostante la sua iniziale poca affidabilità. Oppure si annoiava, delusa dall’aver visto un ritratto di famiglia inferiore ai colpi di scena di situazioni analoghe televisive.
Si diceva di sit com che solitamente si svolgono in più puntate. In “Boyhood” abbiamo un solo film e un film, anche nel peggiore dei casi, è o dovrebbe essere meno prosaico e privo di alcunchè di seriale, di una Fiction tv.
Dicevamo di Linklater come un Rohmer all’americana; questo presumibilmente per la scelta di certi temi narrativi legati…
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