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American Sniper, la limpidezza di sguardo di Eastwood. Di Giovanni Natoli

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“American sniper”. Sembra, quella di Eastwood, una maldestra replica di quelle di Kubrick (qui abbiamo addirittura un “bombarda” al posto di “palla di lardo”). O forse è una risposta al film più antitetico alla guerra mai fatto?

In un’intervista su “Repubblica Eastwood ha definito Kyle “il mio eroe”. E’ “American sniper” la celebrazione di questo eroe? Eastwood, regista di stampo hustoniano, cantore di uomini, è e resta un conservatore, anche se spesso illuminato e sensibile. Ne “Gli spietati”, al termine della resa dei conti in cui fa giustizia in favore di un gruppo di prostitute, dietro le spalle gli sventola la bandiera americana. Non quella iridata della pace. Ciò che interessa del cinema di Eastwood sono le sue contraddizioni sorprendenti, i suoi multiformi punti di vista. Tutto il contrario del diavolo di Ramadi. Anche se a livello psicosomatico, con i 170 di pressione e sindrome del reduce qualche problemino inconscio ce l’aveva.

Kyle tornerà a combattere quattro volte in Iraq: il film è scandito da quattro momenti di guerra intersecato dai conseguenti e fallimentari ritorni di Kyle alla vita civile. In questi quattro momenti Kyle sparerà 160 centri perfetti, metterà in sicurezza tanti commilitoni, sventerà piani e tranelli con astuzia diabolica, porterà avanti un lungo duello con un cecchino, ex oro olimpionico di tiro, che era il suo alter ego.

Le scene di combattimento son girate con grandissima maestria e sono, nonostrante la grande agitazione, viste con un certo qual distacco; si registrano i fatti per quel che sono stati. Ma qualche incrinatura (leggi= interpretazione) c’è ne non da poco. La raffigurazione del nemico è banale; non che si possa amare uno che trapani i crani dei bambini ma rappresentarlo in maniera mefistofelica, con le stimmate del cattivo da fumetti è troppo.
In tutto il film comunque la rappresentazione del nemico è monocorde ma stiamo vedendo tutto attraverso il mirino di Kyle. Perché il diavolo di Ramadi probabilmente gli occhi da quel mirino non li ha mai staccati. Ha messo a fuoco i dettagli ma gli è mancata la visione d’insieme che forse avrebbe incrinato le piccole solide certezze che han costellato la sua vita.

Senza esitazioni caccia una fidanzata infedele (e alla ricerca di attenzioni da lui), rimane stupefatto quando il fratello decide di tornare a casa perché ormai combattere gli fa orrore. Senza esitazioni corteggia la futura moglie; non ascolta mai le sue invocazioni quando decide di ritornare al fronte. Un autistico che, appena finite le missioni, guarda sgomento il televisore spento. Non ci sono più altre torri gemelle in caduta libera a giustificare una vita insensata senza i furori della guerra.

Durante il corso di addestramento Kyle metterà in mostra il suo naturale talento colpendo un serpente invisibile agli occhi dell’addestratore. Un parallelo metaforico con il campione avversario? Per non dire della spettacolarizzazione del proiettile fatale che chiuderà 1 a 0 il lungo duello tra i due campioni del tiro, un vezzo che si poteva trascurare. Eccellente invece la scena svolta durante la tempesta di sabbia, efficace visione del nebuloso futuro psichico che attende Kyle al termine delle missioni. Smarrimento che lo vedrà inserito in un programma di recupero per militari con sindrome “del reduce”.

Eastwood continua con semplicità la narrazione; passa di capitolo in capitolo sino al beffardo finale, a brevi blocchi di immagini, in cui Kyle affianca i reduci mutilati o mentalmente instabili al poligono di tiro (ancora armi…), accompagna il figlio a caccia (talis pater…).

Indubbiamente Eastwood è dotato di una rara limpidezza di sguardo, niente da dire. Forse, senza tirare in ballo nessuna denuncia verso il “sistema”, si poteva affondare di più sul disagio di un uomo che senza un fucile in mano e un obbiettivo da colpire non sapeva vivere. Non si tratta di essere falchi o colombe per capirlo: basta essere uomini.

Giovanni Natoli

[25/01/2015]

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