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Whiplash, diventare grandi attraverso la tortura

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I film dedicati alla musica, in special modo al fare musica sono complessi e di ardua realizzazione. Io sono un batterista: non ce l’ho fatta a resistere e non vedere “Whiplash”, questa pellicola di Damien Chazelle, classe 1985 e al suo primo lungometraggio, pompatissimo oltre ogni merito dal passaparola, premiato all’ultimo Sundance festival, che racconta dei contrasti tra uno studente di batteria di un istituto musicale americano, e il docente direttore d’ orchestra.
Due occasioni: raccontare la musica nel farsi e parlare di educazione, non solo musicale, anche se nello specifico di questo si tratta.

Il batterista è una figura chiaroscurale: uno strumento adorato da quasi tutti, in special modo dai bambini ma anche un personaggio che gode di meno appeal se confrontato con cantanti e chitarristi. Il cinema non ha offerto memorabili pellicole sul batterista; classica quella su Gene Krupa, “Ritmo indiavolato”, con Sal Mineo. Ma erano gli anni dello swing, musica popolare seguita e ballata da milioni di ascoltatori, quanto oggi è popolare Beyonce. Krupa era un divo, non solo un fulminante batterista ma una celebrità alla stregua di un attore di Hollywood.

Ci sono alcuni problemi di messinscena per il batterista, derivati soprattutto dalla natura dell’esecuzione dello strumento. Comunque “Whiplash” (che significa “colpo di frusta”, titolo di un brano chiave nel film e tecnica base per i colpi sul tamburo) mette al centro dell’attenzione proprio un giovane batterista e forse in questo caso l’essere una figura così responsabile della big band è stata una logica opportunità narrativa per renderlo protagonista. Occasione piuttosto fallimentare, a mio parere.

Chazelle sviluppa un suo cortometraggio e lo porta alla durata di 105 minuti; seguiamo le vicende di Andrew, un giovane studente dell’istituto jazz Shaffer e i contrasti con il dittatoriale, manesco, diabolico docente e direttore della big band della scuola, Terence Fletcher. Interpretato magnificamente da J.K.Simmons , un mix di ferocia e umanità, sostanzialmente un paranoico con una missione impossibile: far nascere un nuovo genio del jazz sulla terra, uno come Parker o Armstrong. Personaggi dalla vita difficile e dalle personalità contraddittorie ma, tanto per dirne una, che non han mai frequentato un istituto come lo Shaffer o la Juliard School. Insomma, questo Fletcher crede che per diventare un grande strumentista si debba sopportare ogni serie di tortura, ricatto o seduzione; mentalità peraltro ricorrenti nella musica e nello spirito competitivo americano (anche da noi lo stiamo adottando, ahimè), dove spesso si confonde l’arte con la prestazione olimpionica.

Andrew, figlio di un padre che qualcuno definirebbe un fallito (non è riuscito a diventare uno scrittore), per tutto il film viene tenuto sulla corda da Fletcher.
Appuntamenti alle sei di mattina quando la prova è tre ore dopo, provini shot dove ora siede sul seggiolino, ora viene scalzato via in favore di un altro, riceve schiaffoni finché non riesce a tenere il beat in maniera corretta e via torturando.

Cio’ che…

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