I FILM DA VEDERE | Sette anni dopo l'insuccesso di “Superman Returns”, la Warner ci riprova affidandosi al team di produzione che ha riportato in auge Batman, tra i quali figura lo stesso Christopher Nolan, e il volto dell'ex “Tudor” Henry Cavill.
Non pensate d'incontrare il solito Clark Kent tutto occhiali e cabina telefonica di Richard Donner, “L'Uomo d'acciao” di Zack Snyder ci racconta un Clark giovane, che abita in una fattoria, che deve fare i conti con la scoperta di non appartenere solo alla Terra, dovendo poicombattere con il villain di turno, Zod interpretato da un sempre grande Michael Shannon.
L'Uomo d'acciaio rappresenta per la DC Comics, quello che Capitan America è per casa Marvel: il patriottismo. A partire dai colori rosso-blu dell'uniforme, fino alla S portata sul petto sinonimo di Speranza. La stesso sentimento che pervade lo spettatore prima della visione del film e che poi, pian piano, si sfalda.
Certo buone trovate non mancano, come il raccontare la nascita di Kal El, vero nome di Clark, e la distruzione di Krypton, come anche la buona costruzione del personaggio del padre di Superman, Jor El (Russell Crowe) e della sua rivalità con Zod. Ma se le premesse sono ottime, la sceneggiatura si perde, funzionando a corrente alternata, in un film che preferisce colpire gli occhi più che il cuore.
La seconda parte del film è, infatti, centrata sui combattimenti (molti girati con telecamera a spalla per sfruttare al meglio l'effetto 3D) con il tuonare della musica di Hans Zimmer che assieme trasformano il tutto in qualcosa di assolutamente ripetitivo e inutile.
Agli attori d'esperienza, come Crowe o Shannon, si affida il compito di aumentare il carattere psicologico di una pellicola che zoppica alla continua ricerca del giusto equilibrio, senza trovarlo, tra la narrazione e i combattimenti, che in ogni caso non deluderanno il pubblico dei giovanissimi.
“Per quale mondo devo lottare? A cosa appartengo?” si domanda Superman, ed è il perno su cui ruota l'intera vicenda. Anche se la risposta è palese, Snyder decide di intraprendere una sorta di via religiosa – cristologica, forse fin troppo pretestuosa, rivelando al mondo il supereroe a 33 anni, e facendo convivere, così, la sua natura divina con quella terrena.
“L'uomo d'acciaio” che sulla carta poteva essere il film dell'estate 2013, si riduce ad una pellicola prettamente visiva, senza quel quid in più che avrebbe affermato, ancora una volta, come i film sui supereroi possano essere anche sinonimo di qualità cinematografica. Occasione mancata.
Sara Prian
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[22/06/2013]