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‘Snowpiercer’, l’inferno di ghiaccio di Joon-ho Bong. Di Sara Prian

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Opera ambiziosa quella che Joon-ho Bong ha presentato fuori concorso all’ultimo Festival di Roma e che arriva questa settimana nelle nostre sale. Facendo un po’ il verso, ma sicuramente semplificandolo, le tematiche pretenziose del bellissimo ‘Cloud Atlas’ dei fratelli Wachowski, ‘Snowpiercer’ ci porta in un futuro prossimo, dove la fantascienza si fonda con la filosofia, la religione, ma anche con la violenza.

La terra è stata colpita da una potente glaciazione, i pochi sopravvissuti sono stati salvati e messi dentro una treno che non si ferma mai, diviso per classi sociali. Guidati da Curtis (Chris Evans) le persone del vagone di coda cercheranno di arrivare fino alla testa, appropriandosi della locomotiva.

Un treno, un’arca. Ma anche un percorso, un ciclo vitale per scalare i bassifondi della società e arrivare in alto senza pietà. I nichilisti vedrebbero in questa scelta del regista coreano, l’arrivismo delle persone, il detto ‘homo, homini lupus’ prendere forma, altri parlerebbero di ‘Snowpiercer’ come una grande metafora politica, dove le masse prendono il potere contro il regime.

Ma quello che rimane di più è il modo in cui Joon-ho Bong decide di costruire la pellicola, in una risalita, che invece di essere in verticale, ha la novità di svilupparsi in profondità di campo, con un Chris Evans che si trasforma in un tumefatto Dante accompagnato da una serie di Virgilio che lo aiutano ad oltrepassare i gironi del suo personale inferno, dove i ruffiani (la Mason, interpretata da un’istrionica Tilda Swinton), gli ipocriti (l’insegnante killer), i consigliere fraudolenti, i seminatori di discordia si confondono, fino ad arrivare al Paradiso artificiale, al cuore pulsante del treno.

‘Snowpiercer’ ha la peculiarità di colorare certe scene anche di un’ironia inaspettata e alcuni personaggi, come proprio quello della Swinton, e alcuni momenti sembrano usciti più dalla mente di Wes Anderson che dalla sua. Questo però, è ovviamente, funzionale al racconto che procede per distici e contrapposizioni, tra luce e ombra, tra grigi e bianchi, tra colori sgargianti e neutri senza vita.

Il regista coreano, però, connotando l’ultima parte di caratteristiche cristologiche e criptologiche, forse si perde un po’, finendo per banalizzare tutto quello che aveva così minuziosamente costruito prima.

E’, infatti, il finale a lasciare un po’ perplessi, nonostante, esattamente come il treno, compia un percorso circolare, che dal buio più totale ci porta al bianco più accecante, tutto sembra un po’ buttato lì.

Questo però non toglie che l’opera di Joon-ho Bong, sia una pellicola di spessore, piena di spunti di riflessione, messa in scena in maniera impeccabile e sulla quale si potrebbe teorizzare all’infinito.

Sara Prian

[01/03/2014]

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