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Cos’è l’offerta di conciliazione prevista dal «Jobs Act» in caso di licenziamento?

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L’art. 6 del Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (emanato in attuazione della Legge Delega 10 dicembre 2014, n. 183 -Jobs Act-) ha introdotto l’istituto dell’offerta conciliativa al fine di evitare il giudizio nei casi dei licenziamenti rientranti nella sua sfera di applicazione. Si tratta di un istituto che ha come principale scopo quello di raggiungere una soluzione concordata ed evitare i tempi, i costi e le incertezze derivanti dall’impugnazione del licenziamento.

A quali contratti di lavoro di applica tale istituto?
Ai contratti di lavoro stipulati dopo il 7 marzo 2015.

Cosa succede in questi casi?
Il datore di lavoro può offrire al dipendente, entro il termine previsto per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento (60 giorni), un importo pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura compresa, in ogni caso, tra le 2 e le 18 mensilità.

Cosa significa tutto ciò, facendo un esempio concreto?
Tizio ha lavorato per 10 anni per l’impresa Alfa, la quale decide di licenziarlo. Entro il termine
previsto per l’impugnazione del licenziamento (dunque 60 giorni che decorrono da quando il dipendente ha ricevuto la comunicazione in forma scritta dello stesso), l’impresa Alfa può offrire al lavoratore una somma pari a una mensilità della retribuzione per il calcolo del TFR moltiplicata per ogni anno di servizio. Esempio concreto «ultrasemplificato» ma che serve a rendere un’idea: l’offerta conciliativa nei confronti di un dipendente con una retribuzione di 1.000 Euro al mese con 10 anni di servizio si aggirerebbe attorno ai 10.000 Euro (in via molto approssimativa!).

Il lavoratore può rifiutare?
Sì, il dipendente può rifiutare l’offerta. In tal caso, egli potrà impugnare il licenziamento e adire il Giudice del Lavoro.

Quali sono le implicazioni fiscali di tale istituto?
Per espressa disposizione di legge, tale importo non costituisce reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e non è assoggettato a contribuzione previdenziale. Le eventuali ulteriori somme pattuite nella stessa sede conciliativa a chiusura di ogni altra pendenza derivante dal rapporto di lavoro sono soggette al regime fiscale ordinario (art. 6, comma 1, Decreto Legislativo n. 23/2015).

Come deve avvenire tale pagamento?
Il pagamento di tale somma deve avvenire con assegno circolare e innanzi alle sedi conciliative «protette» previste dalla legge (art. 2113, comma 4, c.c. e art. 76 Decreto Legislativo 276/2003) (art. 6, comma 1, Decreto Legislativo n. 23/2015).

Quali sono gli effetti dell’accettazione dell’assegno?
L’accettazione dell’assegno in una di tali sedi da parte del dipendente comporta l’estinzione del

Diritto del Lavoro, a cura dell’Avv. Gianluca Teat

rapporto di lavoro alla data del licenziamento e la rinuncia all’impugnazione del recesso datoriale anche se già proposta (art. 6, comma 1, Decreto Legislativo n. 23/2015). Il dipendente e il datore di lavoro possono comunque avvalersi anche delle altre forme di conciliazione previste dalla Legge (art. 6, comma 1, Decreto Legislativo n. 23/2015).

E’ consigliabile accettare tale offerta di conciliazione?
Siccome oggi la reintegrazione nel posto di lavoro è prevista solo in casi limitati e particolari, in varie ipotesi al lavoratore può convenire accettare l’offerta di conciliazione (meno denaro ma subito). Infatti, il livello di tutela di tipo meramente economico-monetario (nel caso in cui il licenziamento fosse dichiarato illegittimo dal giudice) sarebbe comunque piuttosto basso e non paragonabile ai regimi di protezione che esistevano in passato.

Tuttavia, qual è il problema reale?
Tuttavia, il reale problema che economisti e giuristi non notano (o non vogliono notare) è che il sistema economico non è più strutturalmente in grado di remunerare il fattore lavoro (in termini di retribuzioni, compensi professionali e pensioni -pensioni intese quali retribuzioni differite-) in modo sufficiente a sostenere la domanda aggregata di beni e servizi nel lungo periodo. Ciò è dovuto a una serie di fattori: innovazione tecnologica (che riduce il bisogno di forza lavoro sia di tipo operaio che impiegatizio), libera circolazione dei capitali e delle merci (ad esempio, si possono spostare 100 milioni di Euro con pochi click e aprire una fabbrica in Serbia, in Ucraina o in Cina dove il costo del lavoro -che riflette il costo della vita- è basso e poi importare le merci in Italia con dazi doganali minimi o inesistenti), saturazione di imprese, professionisti, generiche partite IVA che competono in un mercato asfittico e morente ormai incapace di remunerarli in modo sufficiente. In parole più semplici, l’economia neo-liberale globale non è strutturalmente in grado di «dare il pane» a un crescente numero di individui.

Come si inserisce l’offerta di conciliazione in questo contesto?
Chiarirò subito con un esempio: il dipendente di 50 anni (ormai vecchissimo per il mercato del lavoro) viene licenziato illegittimamente. Tale soggetto non punta alla reintegrazione nel posto di lavoro (oggi rimedio quasi eccezionale) per «molestare» il datore di lavoro, ma semplicemente per sopravvivere siccome è ben consapevole che, con tutta probabilità, forse non troverà mai un’altra occupazione degna di questo nome siccome esistono già «oceani di disperati» più giovani «che premono per lavorare a ogni costo». E se tale cinquantenne ha famiglia? E se ha figli? Terminato il denaro dell’offerta di conciliazione e della NASPI, che ne sarà di loro? Tutto questo dramma umano viene «condito» grottescamente dal sorriso di Renzi, Boschi e Monti che parlano di ripresa, di riforme e di mercati…

E’ bene che l’italiano medio si svegli: condizioni per la ripresa non sono la riforma del mercato del lavoro, lo spread o la riduzione del debito pubblico. Spegnete la TV! La prima condizione è un’altra: la formazione di nuova generazione che, col «coltello tra i denti», riduca il potere dell’attuale classe dirigente, realizzando un nuovo compromesso capitale-lavoro (come seppero fare le generazioni degli Anni Venti -superamento del fallimentare Stato Liberale di tipo Ottocentesco- o quelle degli anni Quaranta/Cinquanta -superamento dell’ormai morta forma di Stato Autoritaria-). E’ innegabile che sia lo Stato Fascista che con lo Stato Sociale post 1945 realizzarono un duraturo compromesso storico capitale-lavoro (economia controllata) capace di creare quella stabilità economica che oggi non esiste più. Questa è l’essenza della crisi. Il resto è solo conseguenza o discorso «da bar». Non appena il benessere delle precedenti generazioni si dissolverà, tutte le contraddizioni esploderanno nella loro drammaticità. La crisi non solo non accennerà a finire, ma ogni anno sarà peggiore rispetto a quello precedente fino all’entropia/collasso finale del sistema-Italia (e di molti altri Paesi Occidentali). Se pensate veramente che le riforme del mercato del lavoro, lo spread o la riduzione del debito pubblico possano risollevare le sorti dell’economia italiana, allora vuol dire che il lavaggio del cervello mediatico ha funzionato bene. Peccato però che ciò vada contro la realtà empirica: ogni anno si sta peggio di quello precedente, mentre le riforme come il «Jobs Act», lungi dal risolvere i problemi, semplicemente li aggravano in molti casi…

Avv. Gianluca Teat

gianluca teat avvocato lavoro

Autore del Breve manuale operativo in materia di licenziamenti, 2016, Key Editore; Coautore di Corte Costituzionale, Retribuzioni e Pensioni nella Crisi. La sentenza 30 aprile 2015, n. 70, 2015, Key Editore

Potete contattarmi via e-mail all’indirizzo avv.gianluca.teat@gmail.com oppure attraverso il mio profilo Facebook Avv. Gianluca Teat o visitare il mio sito internet http://licenziamentodimissioni.it/index.html

25/09/2016

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