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“Monamì”, ho fatto il provino per Zelig, ma il veneziano non è un mona. Di Cesare Colonnese

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Non e’ stato casuale che il mio provino per Zelig si sia svolto a Roma.
Lo avevo scelto io, tra le varie opzioni che avevo a disposizione.
Avrei potuto scegliere Milano o Torino, invece ho preferito scegliere la citta’ eterna. Ci volevo tornare.
E poi era tra le mie preferite, come quella stella che si clicca con la tastiera sul pc per aggiungere una pagina ai preferiti. La avevo nel cuore Roma, da molti anni. Anche Papa Woityla mi ha avvicinato molto a lei.

E’ stato proprio a Roma che nel 1987 ho svolto il servizio militare di leva. Servizio di leva, parola ormai dimenticata nel linguaggio italiano, poiche’ questo anno di trasferta forzato e’ stato nel tempo cancellato e sostituito da servizi volontari. Insomma oggi non e’ piu’ obbligatorio adempiere al servizio militare che, quasi sempre, ci portava lontano dalla regione di residenza, dalla nostra terra, dalle nostre abitudini, dai nostri cari. Se eri un raccomandato di ferro allora no, in tal caso finivi in qualche ufficio della tua citta’ di residenza con le chiappe al caldo e a far finta di scartabellare non si sa che cosa. La Naja era cosi’.
Molti settentrionali eran destinati al sud e molti di Catania arrivavano nel gelido inverno di Casarsa della delizia. Era un distacco forzato e violento e così il solo modo per combattere quel cambiamento era quello di innamorarsi della citta’ in cui lo si viveva. Non feci fatica ad innamorarmi.

Io capitai proprio a Roma, dopo aver fatto i primi tre mesi di “CAR” in Sardegna, mi sistemarono nella citta’ militare della Cecchignola. Era un vialone senza fine, lungo e alberato. Camminandolo e guardandosi a destra o a sinistra si vedevano solo caserme, caserme e caserme.
Qui conobbi gente di ogni parte d’Italia e molti ragazzi romani divennero col tempo miei amici per la vita. Uno lo chiamavo monamì, una fusione tra la lingua francese e quella veneziana.
Non erano pochi quelli che amavano sentirmi parlare in veneziano. Si divertivano ogni volta che mi esprimevo e aprivo bocca dato che mi scivolava sempre qualche parola nel mio dialetto piu’ stretto. Io non mi preoccupavo di questo, mi esprimevo, magari traducendo se necessario, ma senza mai sentirmi fuori posto o inadeguato. Dopo un paio di mesi molti parlavano in un improbabile dialetto veneziano. Per questo ero chiamato “Il veneziano”. Per me era un onore perche’ sentivo nell’aria vociferare sulla mia citta’ ed era una cosa di cui me ne vantavo e ne andavo orgoglioso.

Ho sempre ricordato quei miei amici commilitoni, la simpatia che avevano per il mio dialetto e la luce che si accendeva nei loro occhi quando alla domanda di dove sei, si sentivano rispondere sono di Venezia. Di Venezia Venezia, mi chiedevano?
Certo, rispondevo io col petto gonfio come un pollo. Come se ci fossero due Venezie. Una vera e una finta, poi nel tempo ho capito che quando si dice Venezia Venezia si intende l’isola adagiata nel mezzo della laguna, mentre l’altra Venezia e’ tutto cio’ che sta vicino.
Piaceva Venezia, piacevo io con le mie battute, ma piaceva soprattutto il mio modo spiritoso di parlare. Piacevano quelle risposte immediate, forse facenti parte del mio carattere, quel mio modo di fare gia’ allora tagliente e attento al quale era difficile far sfuggire qualcosa. La risposta sempre pronta, magari un unica parola: va remengo tuo! E sorridevano, si divertivano, forse sognando un giro in gondola su un canal grande, una passeggiata con l’innamorata sotto i portici di Piazza San Marco, un gelato nocciola e pistacchio leccato passeggiando sulla Riva degli Schiavoni.

“Memore di questi ricordi,quando mi si e’ presentata la possibilita’ di scegliere dove far i provini per far parte della famiglia di Zelig ho scelto Roma. Ecco…

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