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Mobbing sul lavoro, i sette parametri per individuarlo. Cosa fare

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Mobbing sul lavoro, i sette parametri per individuarlo. Cosa fare

Forse molti non sono a conoscenza del fatto che esistono alcuni parametri ampiamente utilizzati dalla giurisprudenza per accertare l’esistenza del mobbing. Tali criteri sono basati in buona misura sugli studi dello psicologo Harald Ege il cui contributo all’individuazione dei confini concettuali di tale delicata materia è stato fondamentale.

I parametri sono riportati qui di seguito:
1) ambiente lavorativo (il conflitto deve svolgersi sul posto di lavoro e non fuori di esso);
2) frequenza (le azioni ostili devono verificarsi per lo meno alcune volte al mese);
3) durata (i conflitti devono essere in corso per un periodo pari ad almeno 6 mesi);
4) tipo di azioni (ad esempio cambiamento irragionevole delle mansioni, isolamento sistematico, lesioni della reputazione professionale o personale, minacce o violenze);
5) dislivello tra antagonisti (la vittima è in posizione costante di inferiorità, anche psicologica);
6) andamento secondo fasi successive (tendenza in crescendo);
7) intento persecutorio (disegno preciso mirante alla provocazione deliberata di sofferenze psicologiche finalizzate a spingere la vittima ad adottare un certo comportamento -caso tipico: rassegnare le dimissioni-).

La nostra Corte di Cassazione utilizza tali parametri nella valutazione del mobbing (si veda ad esempio Cassazione Civile, Sez. Lav., 15 maggio 2015, n. 10037).

Oltre alla inevitabili difficoltà probatorie (che sono state ampiamente affrontate in alcuni precedenti articoli di questa rubrica), è utile evidenziare alcuni aspetti in questa sede.

I conflitti devono verificarsi con una certa frequenza (varie volte al mese) ed essere in corso

Diritto del Lavoro, a cura dell’Avv. Gianluca Teat

da un certo periodo di tempo (almeno 6 mesi). Questo rende difficilmente compatibile con il concetto di mobbing singoli episodi occasionali come una semplice «sfuriata» di un manager che rimane circoscritta e che non porta ad alcuna conseguenza.

Inoltre, il mobbing deve presentare un intento persecutorio con un fine ben preciso che in genere è quello di indurre il dipendente a rassegnare le dimissioni. Infatti, il lavoratore che subisce il mobbing spesso è finito in un «binario morto» in attesa della sua estromissione definitiva dall’organizzazione datoriale.

Cosa deve fare il dipendente che subisce il mobbing?

Chi ha già letto alcuni miei articoli passati avrà ormai capito che non sono di certo un «cultore» dei sofismi giuridici e delle analisi psicologiche introspettive, ma sono un realista. Per dirla in altro modo mi addormento dopo una o due pagine di Svevo o di Kafka, mentre rileggerei infinite volte il grande Machiavelli. Dunque, la mia natura mi porta a non perder troppo tempo con i trattati di psicologia sul mobbing e con le relative «conferenze professionali», mentre consiglio di riflettere sui seguenti fatti oggettivi.

Tra i dipendenti che subiscono il mobbing esistono tante realtà umane che dividerei nelle tre seguenti categorie principali (ovviamente esistono anche gruppi intermedi e casi più sfumati).

Primo gruppo. Dipendenti che affermano di essere vittime di ingiustizie del datore di lavoro e dei colleghi, semplicemente perché a un certo punto tocca anche a loro alla fine… lavorare!

Tale fenomeno è particolarmente diffuso tra i dipendenti benestanti «dei vecchi tempi», quando in numerose Pubbliche Amministrazioni «lavorare» era considerato un «optional», mentre percepire lo stipendio un diritto inviolabile e acquisito (ma finanziato da coloro che lavorano e producono veramente!). Durante i miei due anni di pratica professionale presso l’Avvocatura dello Stato di Trieste (difendendo la P.A.), ho affrontato vari casi di mobbing (o meglio di sedicente mobbing) all’interno delle Amministrazioni Statali. Quasi tutti rientravano in questa categoria. Il mobbing veniva usato da «pigroni scioperati» che lamentavano malattie psicofisiche derivanti dal fatto che, a un certo punto, si erano ritrovati nella condizione di «dover lavorare veramente» (almeno qualche ora al giorno e con tutte le garanzie possibili immaginabili!). La realtà in vari casi è molto diversa dagli studi di Harald Ege, non è vero?

Seconda categoria. Dipendenti che «immaginano» il mobbing in quanto una rete di psicologi e avvocati li convince dell’esistenza di tale realtà.

Ricordatevi che esiste un «sottobosco» di professionisti che, specialmente in tempi di crisi, è pronto a «saltare» su di voi per creare artificialmente «lavoro» (per loro) in termini di consulenze professionali e azioni giudiziarie.

Terzo gruppo. Infine, esiste il mobbing vero e proprio a cui sono sottoposti purtroppo sovente lavoratori giovani e neo-assunti (in quanto non hanno ancora intessuto sufficienti relazioni sociali dentro la struttura datoriale), persone di grande intelligenza e serietà morale (non cooptabili facilmente in ambienti degradati a livello etico) e dipendenti più anziani e meno produttivi (in quanto percepiti come un costo per l’azienda).

A quest’ultima categoria suggerisco sempre un atteggiamento «tosto». Ricordatevi che chi pone in essere la condotta di mobbing non è onnipotente. Più si spinge oltre una certa soglia, più rischia. Infatti, è inevitabile, quando la condotta diventa realmente reiterata e invasiva, che rimangano prima o poi delle tracce in termini di messaggi scritti, e-mail, testimonianze ecc. Dunque, il consiglio è uno solo: agite machiavellicamente! Trovate alleati nella struttura datoriale, contattate ex dipendenti licenziati o che comunque non lavorano più in quella struttura (non hanno nulla da perdere e pertanto potrebbero essere dei validi testimoni), raccogliete prove da usare in un futuro giudizio. Soprattutto non fatevi intimorire: è proprio quello che vogliono!

I giudizi non si vincono citando i trattati degli psicologi o riproducendo nel testo dell’atto processuale intere pagine delle sentenze della Cassazione in materia di mobbing. I giudici ormai nemmeno leggono più queste parti degli atti. Sono giustamente stufi della prosa prolissa di molti avvocati che in realtà non hanno nulla da dire. Le cause si vincono dimostrando i fatti e, soprattutto, presentandosi davanti al magistrato in modo credibile e con un «vantaggio morale», così come le battaglie si vincono con strategie, armi e uomini giusti e non con le inutili quanto pedanti citazioni di Cicerone.

Avv. Gianluca Teat

Potete contattarmi via e-mail all’indirizzo gt.teat@gmail.com oppure attraverso il mio profilo Facebook Avv. Gianluca Teat o visitare il mio sito internet http://licenziamentodimissioni.it/index.html

22/06/2016

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