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Giacomo Favretto ovvero il sogno spezzato

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[06/11] Quanto tempo per rivederlo, per sentire il profumo di quella Venezia che Egli tanto amava e che sapeva così bene ritrarre, quasi fosse una “morosa” alla quale dedicare omaggi per la sua bellezza mai spenta definitivamente, dedicare a quei tempi passati e indimenticabili, a quelli presenti colmi di gioia di vivere, tutti i suoi colori, le sue visioni incantate, pur senza mai cadere nell'ovvio di tanti illustratori che descrivevano la “Sua” Città  così come i tanti acquirenti volevano e pensavano che fosse.

Nelle sue corde non allogavano leziosità  e manierismo ma ricchezza cromatica vivificata da un tocco “magico” che nulla aveva da invidiare a taluni colleghi d'oltralpe ben più declamati di Lui.Giacomo Favretto nasce a Venezia l'11 Agosto 1849 nella Parrochia di San Pantaleone, figlio di Domenico, un modesto falegname, il quale traendolo con sè nei posti ove si recava per lavoro ( aggiustava e vendeva piccoli mobili ) ebbe la fortuna di parlarne ad un suo cliente, il pittore Francesco Vason, come di un ragazzo capace di disegnare e ritagliare figurine di carta con i precisi profili dei soggetti ritratti. Il Vason intuì le doti del quindicenne Giacomo e decise di fornirgli i primi rudimenti dell'arte pittorica facendolo “lavorare” con i propri figli, anche loro adolescenti.
Fu la sua fortuna poichè da quell'incontro iniziò praticamente la “carriera” di questo Artista che sarebbe stato riconosciuto più tardi un vero e proprio innovatore della pittura veneziana nella seconda metà  del XIX° secolo.

Fu proprio nello studio del Vason che fece la “conoscenza” con alcuni quadri originali di Pietro Longhi, che molto avrebbero contato nella sua carriera di descrittore di interni famigliari, sapendone analizzare con precisa psicologia i momenti di intimo raccoglimento o di allegrezza popolare, semplici manifestazioni caratteristiche degli abitanti di una Città  che, pur vivendo i giorni più tristi della propria storia, avevano mantenuto quella peculiare ironia e felicità  del vivere che nei secoli erano state caratteristiche della vita nella Capitale di uno Stato millenario.
Seppe così mostrarci una Venezia si povera, ma non così decadente come spesso ci è stata descritta da artisti e letterati, che di quella realtà  non vivevano il quotidiano, anche se bisogna riconoscere che visionando le testimonianze fotografiche dell'epoca, si evince una realtà  durissima per la fascia più povera della popolazione la quale doveva vivere in condizioni durissime al limite della sopravvivenza.

Ma la grandezza intuitiva di Giacomo Favretto risiede proprio nella sua capacità  di sublimare la povertà  e la decadenza fisica del contesto urbano e di coloro che lo abitavano.
I suoi soggetti non mostrano mai angoscia o paura del proprio essere, semmai si intuisce dalle espressioni raccolte dall'Artista un senso panico della vita, a volte perplessità , spesso ironia e curiosità , ancora fatalità , melanconia forse, il tutto, sempre, addensato di un senso di dignità  mai spento.

Questo lo si coglie particolarmente nelle figure femminili, nobili o popolane che fossero, sui cui volti appare incancellabile il ricordo di un antico splendore, di un intimo senso di grandezza che per secoli le donne veneziane, tutte, avevano offerto al mondo intero, (V. Busto di popolana del 1883 ) affascinando poeti e pittori che le avevano immortalate nelle loro opere.

Grande disegnatore, in molti dei suoi quadri seppe calarsi nei panni del “fine dicitore” lavorando in punta di pennello per descrivere interni d'ambiente con la rigorosità  di un fiammingo ( V. “I miei cari ” del 1877 e “Una lezione anatomica nella R. Accademia di Belle Arti di Venezia” lavori tra i suoi più famosi e ammirati) senza tuttavia mai rinunciare all'innesto di un particolare soffio vitale ed un uso della luce tipicamente appartenenti alla storia della pittura veneziana.

La perferzione calligrafica, mai stantia, ci propone comunque l'intima sostanza dei soggetti e delle cose descritte ( V: “La ricetta” – ” Ritratto della sorella Angela ” e ” Il francescano Giovanni Duns Scotto nella sua cella ” ) connotazioni che caricano questi dipinti di una sorta di magia realistica, mai scadente nella leziosità , facendoli apparire magnificamente “moderni” appartenenti cioè al tempo in cui vengono ammirati, attraendo il fruitore nel proprio mondo, donandogli quei sentori dei quali fruiva l'Artista stesso nel momento della composizione.

Ma esisteva un “altro” Favretto che sapeva catturare momenti caratteristici della vita popolare veneziana, fissandoli sulla tela con un declinato pittorico in cui le veloci pennellate sapevano sapientemente decifrare i caratteri e gli stati d'animo dei soggetti, comunicandoci sensazioni dei protagonisti ripresi nelle loro attività  giornaliere, mostrandoci angoli di mercatini rionali con la merce stesa all'aperto, un brulicare di vita quotidiana di sapore antico, l'attività  dei venditori ambulanti, portando sino a noi i profumi ed i rumori che dovevano caratterizzare quei contesti ( V. ” La bottega della fioraia ” in cui un turbinio di tocchi colorati invade lo spazio della tela, con la sapienza del chiaroscuro che da la perfetta profondità  e le sciabolate di bianco e giallo in primo piano sugli abiti delle due donne, che illuminano tutto il contesto agitandolo realisticamente.

Così come ne “ L'Ultima parola ” e “Due quadri da vendere. La bottega dell'antiquario ” in cui le situazioni contrattuali del compra/vendi sembrano galleggiare nell'aria, per quella sapienza tecnica e psicologica che il Nostro sapeva istillare in questi dipinti in cui segno e colore erano fusi con una musicalità  vivaldiana che agiva da sottofondo accompagnando quei nostri progenitori ottocenteschi nelle loro attività  e con le loro speranze, vedi ancora: “Banco lotto” del 1880 – [ direi nulla di nuovo sotto il sole ] ) decriptando una Venezia quasi misteriosa, portando alla luce una forza inattesa di quegli uomini e donne consci di un duro presente, ma consapevoli di un passato che poteva agire da sostegno morale, che il Favretto doveva conoscere molto bene per le sue modeste origini, dando loro la forza di resistere con la speranza che dopo la lunga notte deve pur sorgere il sole ( come più tardi reciterà  il grande Eduardo ).

Tutto questo il sensibile Artista descriveva su quei volti, quegli abiti sdruciti, quei fondali ed interni di case povere, con una pittura le cui tracce più che segni appaiono nervature dei sentimenti di quei protagonisti, traducendo i tanti attimi di incantamento in superbe visioni pittoriche nelle quali colore, luce e strutturazioni formali hanno raggiunto la perfezione, promuovendo nello spettatore un senso di nostalgica vicinanza a quelle testimonianze esistenziali.

Onde meglio capire questo amore per il ( suo ) presente, dobbiamo tornare all'interesse suscitatogli dalla Pittura del Longhi i cui dipinti erano stati i primi ad appassionarlo in casa di quel Francesco Vason, che inizialmente lo aveva indirizzato ancora fanciullo alla pittura, facendogli sognare quelle stagioni passate ( ma non per Lui così lontane ) che lo avrebbero portato a far rivivere alcune di tali gustose scene settecentesche colme di brio “goldoniano” così ricche di verve rococò.

Lo avrebbe fatto, tuttavia, usando il suo linguaggio ed una tavolozza assai diversi, un impianto strutturale che risentiva dell'evoluzione dei tempi nel formalismo pittorico ( V. “Un incontro” e ” Balcone del Palazzo Ducale ” ) caricando, talvolta, il componimento di una sottile malizia appena, appena manifesta ( V. ” Soli ! ” dove tutta la scena appare come profusa di un sottile profumo di innamoramento ), insomma sentiva il bisogno di palesare i suoi sentimenti per una cultura che gli apparteneva per diritto di nascita, indagando nei recessi di una società  che aveva trascorso l'ultimo secolo di fulgore, forse inconsciamente, ma con irrefrenabile gioia di vivere.

In questo suo rivolgersi al passato risiede pertanto, assai probabilmente, la necessità  di ritrovare non le stesse condizioni ambientali e societarie ma un filo conduttore del carattere della propria gente e di un modus vivendi che, pur apparendo diverso nei modi e nelle condizioni del quotidiano manteneva una costante di orgoglio e dignità 

Di questa sua capacità  di lettura dei tempi e delle persone è ricca la casistica dei ritratti, in cui una decisa indagine psicologica scava nella psiche dei soggetti, facendoli apparire nella loro scoperta personalità  ( V. “Ritratto di Angelo Levi” in cui dallo sguardo alla sigaretta tra le mani ci delinea perfettamente l'Uomo di mondo, oppure “Ritratto del signor Adorno” la cui personalità  fa emergere da un buio fondale appena schiarito dal biancore del colletto e di un polsino della camicia; ed ancora il tenero, quasi dolente ritratto del padre, del 1884, dove l'anziano genitore viene delineato con tenero amore filiale, ma con stringata, tintorettiana magia chiaroscurale ).

Non fu vedutista nel senso ampio del termine, collocò talvolta i suoi personaggi in spazi quasi riposti della Citta' (V. “Ingresso di una casa patrizia in Venezia ” in cui il dettaglio urbanistico e descritto con minuzia ricca di particolari ), amando assai più le intimità  ambientali, sempre palesate con abbondanza di specifiche suppellettili quasi a volerci dare testimonianza di un quotidiano laconico, spesso avaro.

Fu amico di tutti i suoi colleghi, che lo amavano e stimavano come un caposcuola, ebbe onori dal Re d'Italia e dalla Regina, i grandi collezionisti di tutta europa cercavano le sue opere, fu presente a molte Esposizioni in Italia ed all'estero, premiato e onorato si arricchì tanto da potersi permettere l'acquisto di un palazzetto sul Canal Grande in zona San Stae, tuttora esistente, ma la sorte non lo amò.
Pochi anni prima di morire perse un occhio ed infine la vita sua si spense all'età  di appena trentottanni in maniera repentina, da un'ora all'altra.

Leggiamo nel Catalogo della mostra, in un esteso profilo a firma di Elisabetta Palminteri Matteucci: “…..Un lutto che lascia attonita la Città . Era il 12 Giugno 1887, appena pochi giorni dopo i grandi festeggiamenti tributatigli per l'ammirazione suscitata dai suoi quadri all'Esposizione Nazionale inauguratasi ai primi di Maggio…. .
Ricordando, ancora, le parole pronunciate, nel decennale della morte, nel 1897, da Pompeo Gherardo Molmenti, suo grande sodale nell'Arte, il quale rievocava con parole commosse l'Amico scomparso, ribadendo il grande vuoto lasciato nel mondo dell'Arte da Colui che, sul modello di Pietro Longhi, aveva incarnato lo spirito del proprio tempo.

Finiva così l'avventura terrena di un grande Artista e di un grande Uomo, il quale aveva usato spesso la sua pittura per “cantare” la propria Città  e la gente tutta che la popolava, proponendo la grande umanità  che permeava i suoi concittadini, evidenziando il loro particolare senso dell'humor, un sotteso fatalismo ma pure una sia pur flebile speranza nel futuro che, credo personalmente, si possa leggere nella grande tela : ” Liston odierno ( moderno ? ) “, forse il suo ultimo lavoro, in cui una grande folla variegata di ricchi e poveri ma, soprattutto, con la presenza di alcune Tate con neonati in braccio, popola Piazza San Marco, simboleggiando una ricchezza umana ed una speranza volta al futuro di Venezia e dei suoi abitanti.

Voglio ringraziare sentitamente tutti gli organizzatori di questa magnifica Esposizione e lo faccio ricordando che, grazie alla loro solerzia ed al tanto lavoro, ci hanno riportato, dopo lunghi anni di silenzio,[ l'ultima grande Mostra postuma di Favretto risale al 1899 in occasione della III° Biennale D'Arte veneziana, con l'intermezzo di una Mostra curata da Nino Barbantini nel 1950 alla XXV Biennale ] la luce e i colori di un grande figlio della Serenissima.

Mi permetto, ancora, di invitare tutti i veneziani, amanti dell'arte e della propria Città , a visitare le luminose sale del Correr per abbeverarsi di questo amalgama fatto di splendenti cromie, con il rischio, tuttavia, di provare una acuta nostalgia per un tempo tanto povero di sostanze, quanto pregno di recondite felicità  e, talvolta, di sottesa spiritualità .

Consiglio inoltre la lettura dell'esaustivo Catalogo, edito da “SilvanaEditoriale“, ricco di scritti e ricordi, nonchè di ottime riproduzioni dei dipinti in mostra, citanto infine, “last but not least”, il curatore Paolo Serafini.

Ora mi fermo veramente, dando appuntamento ai nostri lettori alla prossima Manifestazione.

Venezia, Ottobre 2010

Giorgio Pilla – Critico d'Arte

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