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Gennaro Favai (1879/1958). Una pittura tra l'onirico e il reale

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Al secondo piano della poderosa CA’ PESARO è allestita una Mostra, buona nella strutturazione formale, ma con qualche carenza di illuminazione, di uno dei Maestri della pittura veneziana, quello che, con tutta probabilità , possiamo definire “l’ultimo vedutista” capace tuttavia di introdursi con la sua curiosità  creatrice fino alle soglie della seconda metà  del XX° secolo, senza mai “tradire” le proprie radici veneziane, felice costruttore di moti scenici e misteriose miscele cromatiche, complice l’antica tecnica della “tempera veneziana” di cui ci svela i segreti un preparatissimo GIOVANNI SOCCOL che appare tra i curatori della mostra stessa unitamente a SILVIO FUSO – ELISA PRETE- CRISTIANO SANT ai quali noi tutti dobbiamo essere grati per le emozioni procurateci, tutti presenti nel bel Catalogo edito dalla Marsilio.

Dunque parliamo di GENNARO FAVAI ( 1879/1958) veneziano, pittore, grafico, disegnatore che seppe coniugare in ogni momento la difficile tecnica del passato con la ricerca delle segrete pulsioni che ogni soggetto offre all’autore al fine di metterlo in grado di esprimere concetti ed emozioni,
traducendole in simboli e suggestioni altrimenti non comprensibili dall’animo umano.
Vorrei, ancora una volta, seguire il mio istinto emotivo per parlarvi, per descrivervi questa mostra, abbandonando ogni sentiero cronologico, qualchessia accostamento tecnico per tentare di “mostrarvi” a “macchia di leopardo” ciò che i miei occhi hanno visto e percepito nel momento dell’approccio ad un quadro e quali lampi di commozione abbia procurato.

Colpisce, ad esempio, come in molte delle opere in cui appare Venezia, visitata in angoli pressochè sconosciuti, la pittura si faccia materia palpabile quasi che l’Autore avesse voluto dare spessore alle proprie impressioni usando, come detto prima, l’antica tecnica della “tempera veneziana” capace di solidificare sulla tela luce e colore, ombra e penombra, suggerendo una idea di strutturazione atta a mantenere nel tempo, non solo fisicamente ma spiritualmente, la materializzazione dei propri sentimenti per la natia Città . Non è questa l’unica suggestione che tali dipinti comportano poichè va ad aggiungersi all’uso di un chiaroscuro che si presenta quale apparato teatrale in grado di proiettare l’osservatore in situazioni melodrammatiche intrise di mistero e, talvolta, di pathos shakespeariano ove le cromie, con movimento centripeto, si allontanano dalle periferie ombrose per dirigersi verso un punto luce che tutto dissolve, facendosi pura intuizione visiva, liricamente proposta.

Ci sono, tuttavia, opere in cui il Maestro ha voluto giocare con una illuminazione radiosa quasi a voler complementare il veduto con un’ansia spirituale che toglie ogni sostanza alle pietre, alle gondole, all’acqua collocando i soggetti in un contesto animistico denso di memorie oniriche arricchite, curiosamente, da intrichi vegetali che appaiono, e questo in molte delle opere esposte, quali spiriti benigni della natura che volessero abbracciare per proteggerli palazzi e case dalla consunzione che il tempo fatalmente procurerà , donandoci con ciò una sensazione di intima appartenenza della Città  ai propri abitanti, a tutti coloro che l’hanno voluta così diversa, così lontana da ogni idea di mera collocazione abitativa ma, più propriamente, quale sede appartata di un “modus vivendi” che non aveva, e forse non ha tutt’oggi, eguali al mondo.

Mi ha particolarmente colpito un grande telero, titolato: “Bacino di San Marco” nel quale una sospesa “nuvola” rossa avvolge le barche all’ormeggio, il Palazzo Ducale e l’area a mare della Piazzetta donando all’insieme tutto una parvenza di oniricità , di abbraccio universale alla Città , ai suoi monumenti più rappresentativi, una sorta di cupola protettiva, un dipinto al limite del misterioso che si fa indagine psicologica, ricerca di familiarità , un lirico grido d’amore per quelle pietre che furono simboli di saggezza e di potere.

Della serie dedicata a Venezia si fanno notare, ancora, alcune deliziose piccole tele di “notturni” in cui Palazzo Labia e Ca’Rezzonico, al pari della Chiesa della Salute, appaiono immersi in un crepuscolo avvolgente rotto da vaghi splendori che prorompono dall’interno creando un clima di votiva presenza e di festante partecipazione.
In questi casi, particolarmente, la pittura si fa pura apparizione, con quell’uso sobrio del colore che affida alla sola luce la meraviglia del componimento. Meraviglia che ci prende, nuovamente, davanti alla visione di “ Palazzo Ducale, mattino” in cui la tenue luce dell’alba accarezza la facciata prospicente il molo del monumento, evidenziando quel rosato che lo distingue, palesando con gentilezza le parti marmoree, un’opera, questa, densa di armonia pittorica e, soprattutto, ricca di un recondito amore filiale.

Appassionano le tarde vedute di Venezia dall’alto, nelle quali l’Autore pare volesse cogliere l’afflato spirituale della Città , non più costretta nelle strette calli e nei tortuosi canali, ma vista finalmente libera avvolta in una luce straniante che la veste senza ….ismi, con velature e trasparenze, tra le quali si mostrano, come lampi improvvisi, cupole e campanili. Qui il dettato pittorico è soffice come spuma, le magrezze cromatiche si stagliano quali ectoplasmi nell’ambiente luminoso, ponendosi quali antitesi al realismo per evocare stati d’animo evasivi, emozioni e concetti estetizzanti non comprensibili empiricamente.
E troviamo nuovamente Venezia nello splendido “Interno della Basilica di San Marco” ove la luce filtrata dal rosone rivolto a sud illumina, quasi accarezzandoli, i dorati racconti musivi della cupola, sovrastanti l’angolo inferiore illuminato appena dalla tenue luce dei cesendelli, le cui palpitanti fiammelle rosse si fanno spazio in un buio sostanziato da intuizioni visive colme di pathos. E poi le ambrate processioni in piazza San Marco in cui la folla dei partecipanti, il baldacchino, gli stendardi, tutto diviene occasione di giochi cromatici dalle suadenti timbricità , animando il pensiero con momenti di pulsante collettività  civile e religiosa che Favai seppe cogliere con l’animo coinvolto del pittore capace di scindere il sacro dal profano al fine di esaltare bellezza esteriore e sentore spirituale.

Si potrebbe continuare sul tema veneziano, ma corre l’obbligo di evidenziare, sia pur a volo d’uccello, le sue esperienza mediterranee, americane e francesi.
Le lunghe frequentazioni mediterranee [ soggiorni a Capri, Taormina, Siracusa, Positano e…. Algeri ] ci mostrano un Favai attento a frazionare luci e colori che divengono più abbaglianti le une e più decisi e contrastanti gli altri, con il chiaro intento di mostrarci un mondo pittorico diversamente prospettato e attentamente declinato al fine di donarci profumi di terre alternative ove ogni cosa viene scissa dalle altre, capaci tuttavia di convivere con una spettacolarità  unica e irripetibile densa di accentuazioni e condita di misteriosi sospiri.
Durante la sua avventura americana, nel corso della quale venne accolto con tutti gli onori e riconosciuto come uno dei maggiori artisti del momento, seppe cogliere della Grande Mela aspetti assolutamente inediti scevri da spettacolarità  e colmi di una poesia che solo un veneziano poteva percepire, ricco della propria cultura della luce e del colore.

Troviamo, infatti, alcune opere ove i grattacieli appaiono velati da luminosità  capaci di spiritualizzare la città  più materialistica del mondo, altrove declinando gli stessi in visioni notturne cariche di un pathos chiaroscurale in cui le contrastanti luminosità  rischiarano singole sezioni dell’apparato formale con risultati di messinscena ricchi di sensazioni pulsanti e avvolti da misteriose interiorità  vitali alternantisi alla primaria percezione.
Quando giunge in Francia nei primi anni del secolo scorso si ritrova a respirare un’aria di post impressionismo che, tuttavia, non incide più di tanto sulla sua idea di pittura. Qui troviamo opere in cui il colore si espande a tocchi veloci e la luce accarezza il veduto con lievi armonie cangianti, che riportano alla mente dettati monettiani per cui nulla conta più se non l’emozione che si rapprende sulla tela. Per contro rileviamo lavori a matita ed acquarello e, particolarmente, in lavis litografico ove la cifra calligrafica la fa da padrone con risultati descrittivi assai importanti.

Credo che un’opera possa raccogliere tutta la sapienza pittorico introspettiva di Favai: LA CASA, in cui vagheggiamenti klimtiani ed il ricordo di Bòcklin accendono spie di intimo simbolismo e oniriche rimembranze capaci di coagulare in sintesi temi e pensieri di un Artista la cui fantasia fu sempre la molla produttrice di tutte le sue realizzazioni artistiche.
Sono, questi miei pensieri, niente più che una scheggia di ricerca permeata, come detto, dall’emozione per un incontro con Colui che seppe estrapolare dalla nostra Città  gli ultimi slanci di sentimento vero tramutandoli in sogno.

Un arrivederci alla prossima mostra.

Venezia, Marzo 2012

Giorgio Pilla – Critico d’Arte
(www.giorgiopilla.it)

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