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Detroit, il film: ritrovarci faccia a faccia con la crudeltà di un certo sistema

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Detroit, il film: ritrovarci faccia a faccia con la crudeltà di un certo sistema

Di tante rivisitazioni storiche, oggi così di moda, più o meno accurate e più o meno oneste, “Detroit” di Kathryn Bigelow appartiene alle pellicole di buona soddisfazione. Non perfetto, non esaustivo ma da vedere.

Attenzione: nessuno ha mai stabilito con certezza ciò che avvenne quella notte del Motel Algiers riguardo l’incursione della polizia e i maltrattamenti perpetrati ai danni di alcuni ragazzi afroamericani e due ragazze bianche.

L’episodio è avvenuto durante la notte tra il 27 e il 28 luglio del 1967 quando ci fu la prima celebre rivolta nera, culminata in saccheggi e distruzioni da parte dei neri dopo che la polizia aveva fatto incursione a una festa “illegale” nel club “Blind pig” e arrestato i partecipanti. La cittadinanza nera si rivoltò, stanca dei soprusi e si dovette far intervenire la Guardia Nazionale per l’entità degli scontri.

Mentre la città è a ferro e fuoco, due amici, uno dei quali cantante soul per la band “Dramatics” si introduce nel motel Algiers, per digerire la mancata esibizione del gruppo vocale al Fox Teathre a causa di un coprifuoco e cerca di flirtare con due giovani studentesse bianche che li porteranno nella loro camera, occupata da altri afroamericani. Un fatto (che non racconto) porterà alla reazione delle forze dell’ordine che terrà tutta la notte sotto ostaggio il gruppetto di giovani.

Non proseguo oltre nel racconto della trama; essa si sviluppa in una manciata di ore ed è di grande tensione. Testimone degli eventi una guardia giurata nera, che è un po’ l’occhio esterno della vicenda e simbolo di un compromesso impossibile.

Ho letto diverse recensioni al film (adoro scriverle e soprattutto leggerle); un commento negativo al film, pur in generale lodato per la capacità espressiva, è stato quello che, concentrandosi su un unico episodio, la regista abbia perso il filo del significato allegorico di un film sul razzismo e sui soprusi di chi ha il potere; inoltre, nel cercare di raccontare la violenza dal punto di vista della psicologia individuale, la regista abbia mostrato delle falle che non ha nella descrizione filmata dei momenti collettivi di violenza.

Condivido in parte questa critica; ok, probabilmente i fatti di Detroit possono trovare una narrazione più ampia e significativa di quella girata dalla Bigelow. Ma non è del tutto vero che questo buon film non ci porti a ritrovarci faccia a faccia con la crudeltà di un sistema che, nell’era Trump (e con parallelismi possibili per l’Italia-vedi “Diaz”- non poco inquietanti) rivuole una certa legge e un certo ordine.

Kathryn Bigelow è un’autrice che non sempre mi convince; muscolare, agitata, urlata: ma in certe pellicole, e parlo di lavori recenti la regista di “Strange Days”(un nobile fallimento) ha trovato un notevole equilibrio tra la sua foga narrativa e il rispetto per un cinema non più così ferocemente narcisista. Tutte le risorse toniche del suo stile trovano per due terzi del film una eccellente canalizzazione.

Sin dal racconto del fatto scatenante la rivolta che nelle scene di guerriglia la macchina a mano sa inserirsi con vigore e senso della precisione nei momenti caldi e le immagini di repertorio non van oltre il necessario.

Per quanto riguarda il cuore, il centro della storia, la Bigelow tiene la tensione altissima ed è difficilissimo non entrare in empatia con gli “ostaggi”. Nonostante si tratti di buoni&cattivi lo stereotipo non pesa (forse perché davvero abbiamo buoni e cattivi in queste situazioni). Inoltre il “modernariato” e la colonna sonora è, una tantum, necessario e accurato e le canzoni presenti nel film sono non revivalistiche ma funzionali. In una scena nella stanza del motelci sono tre fonti audio con tre differenti musiche che si fondono assieme:blues, soul e jazz.

Al termine viene scelto di ascoltare solo la magnifica “Theme for Ernie” di Coltrane e si parla dell’artista, morto poco tempo prima della rivolta. Con questo flash narrativo, la Bigelow sintetizza un momento storico/artistico in cui i vari linguaggi musicali black si fondevano in un afflato unico, desideroso di libertà.

C’è da dire che una volta chiusa la notte all’Algiers, quando abbiamo l’epilogo giudiziario, “Detroit” perde parecchia forza e non riesce a chiudere degnamente il suo intento paradigmatico di opera antirazzista. E anche la scelta del cantante dei “Dramatics” non è risolta appieno, nonostante si tratti di una scelta radicale e ragionevolissima; siamo nel classico cinema civile, con i suoi stereotipi.

Ok, forse è vero che alla Bigelow riescono meglio le scene d’azione e meno quelle psicologiche. Forse; perché non credo che la notte di sevizie fisiche e psichiche mostrata nel film non faccia presa sullo spettatore e gli rimandi un messaggio ben preciso e, credo, più significativo di opere come “Selma”.

DETROIT
(id., 2017)
Regia Kathryn Bigelow
Con: Will Poulter, John Boyega, Algee Smith, Hannah Murray, Kaitlyn Dever

Giovanni Natoli

MOVIEGOER, APPUNTI DI UNO SPETTATORE CINEMATOGRAFICO. DI GIOVANNI NATOLI

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