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Capitan Phillips, i pirati somali e il finto terzo mondo. Di Sara Prian

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Dopo il grande successo della saga di Bourne, Paul Greengrass decide di tornare al cinema più impegnato, reale, con l’adattamento del libro di Richard Phillips in un film in poche location, teso e adrenalinico.

“Captain Phillips – Attacco in mare aperto” racconta la storia vera del capitano Richard Phillips (Tom Hanks) accaduta nel 2009 quando la sua nave portacontainer è stata attaccata da un gruppo di pirati somali. Preso in ostaggio, il Capitano inizierà una lotta contro il tempo per salvare se stesso.

La pellicola di Greengrass riesce, nelle due ore, a mantenere altissima la tensione, tenendo lo spettatore incollato allo schermo, quasi senza respiro.

Il regista decide di raccontare la realtà dei fatti, quello che davvero accade nelle acque vicino alla Somalia tenendo, in maniera intelligente, il piede in due scarpe. Racconta, infatti, sia il punto di vista degli “yankes”, di Phillips e del suo equipaggio, ma anche quello dei pirati non facendo di tutta l’erba un fascio.

I pirati Somali di Greengrass sono persone da essere considerate singolarmente, ognuna con le proprie motivazioni e dei sogni che li avvicinano moltissimo agli uomini bianchi, agli americani, ai “buoni” della pellicola. Senza dimenticare anche il lato più malvagio della pirateria, di chi lo fa per soldi, con cattiveria e violenza, il cineasta ci racconta qualcosa di sconosciuto come il sogno di Muse di andare negli Stati Uniti, di rapinare queste imbarcazioni, solo per realizzare il proprio desiderio di una vita di migliore negli States.

Dall’altro lato “Capitan Phillips” è una pellicola su una paura reale, che esiste e che, per questo motivo, smuove dentro più di qualsiasi altro film. Richard Phillips viene, per forza di cose, dipinto come l’eroe della situazione, come l’uomo in grado di mettere in gioco la propria vita per salvare i suoi uomini, ma allo stesso tempo si mostrano le sue debolezze, le sue paure, il bisogno di gridare l’amore per la moglie e i figli quando sente che la fine è ormai vicina.

I due protagonisti non sono solo i due capitani delle due “fazioni” in campo, ma si trasformano in simboli di due culture, in un film che si può idealmente dividere in due sezioni, dove la seconda diventa anche una sfida dal punto di vista registico in cui tutto viene girato in uno spazio strettissimo di una scialuppa di salvataggio.
Tutto è raccontato attraverso claustrofobici primi piani e una narrazione consequenziale davvero da elogiare, in cui ogni avvenimento sembra la diretta conseguenza di ciò che è accaduto in precedenza.

Realizzato e ambientato tutto in mezzo al mare, nella terra di nessuno, “Capitan Phillips” è una pellicola tutta al maschile che ricorre alle donne, in questo caso la dolce metà del capitano, come ancora di salvezza, come la Penelope moderna che attende a casa il moderno Ulisse e gli è da conforto nei lunghi mesi lontano dalla natìa patria e coraggio nei momenti di maggior difficoltà.

Paul Greengrass porta sullo schermo una delle sue pellicole migliori, dove il tutto viene bilanciato con estrema acutezza evitando sia il patriottismo che il mostrare il finto terzo mondo, dimostrando ancora una volta la sua propensione a sfornare film diretti, forti, che non amano i giri di parole e che parlano con gli occhi e le espressioni dei suoi protagonisti.

Sara Prian

[01/11/2013]

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