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American Hustle, cast grandioso in sceneggiatura quasi perfetta. Di Sara Prian

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“La gente crede a quello che vuole credere”, una frase che potrebbe riassumere il nuovo film di David O.Russell che, giocando sull’idea della truffa, mette in piedi un film da Oscar, dirompente, brillante e detonante, con un cast stellare in completo stato di grazia.

Irving Rosenfeld (Christian Bale) è un truffatore che assieme alla sua seducente complice Sydney Prosser (Amy Adams) si trovano a dover collaborare con l’agente dell’FBI Richie DiMaso (Bradley Cooper) che li costringe ad incastrare i più alti esponenti della politica americana dell’epoca (1978).

A completare il quartetto la moglie di Irving, Rosalyn (Jennifer Lawrence), una mina vagante, un po’ svampita ma nella quale potrebbe nascondersi la chiave di tutto.

Dopo il grande successo de “Il lato positivo”, David O.Russell sforna un film come “American Hustle” di tutt’altra pasta, con una regia ricercata che strizza l’occhio a Tarantino (ci sono almeno due omaggi), ma che riesce a produrre una pellicola sfavillante di alto valore, dove il cast è in assoluto il fiore all’occhiello.

Tra il poliedrico Christian Bale, sempre più grande caratterista, l’enigmatica e audace Amy Adams, la sempre più grande conferma del carismatico Bradley Cooper, il funzionale Jeremy Renner, spicca l’esplosiva Jennifer Lawrence. La 23enne del Kentucky è l’uragano che smuove i meccanismi della pellicola, una boccata d’aria fresca e di risate per lo spettatore e per il film stesso.

I suoi momenti sono i più memorabili e con il ruolo di Rosalyn dimostra, se mai ce ne era ancora bisogno, il suo talento nel sparire dietro al personaggio che interpreta, che non è mai uguale a quello precedente.

Ed è proprio la stessa Lawrence, nonostante il suo non sia il ruolo da protagonista, l’ingranaggio che permette al film di mantenere un difficile equilibrio tra commedia e classico film su una truffa, che smuove la sceneggiatura facendole prendere una determinata direzione.

“American Hustle”, infatti, pone le sue basi sulla tradizione americana dei crime movie, con due antieroi alla Bonnie e Clyde che agiscono negli anni ’70, non attraverso la violenza, ma con l’ingegno, con la truffa, appunto. A loro O.Russell non dà nemmeno un movente, un motivo per il quale devono comportarsi così: siamo a fine anni ’70, l’America ha passato alcuni scandali e la guerra del Vietnam e loro due sono semplicemente dei ribelli che sognano una vita migliore. Non si può non provare simpatia per Irving e Sydney, per i loro difetti che, sicuramente, sovrastano i pregi.

Il regista poi non manca di dare al suo film uno sguardo critico sugli uomini; come dice Irving, l’essere umano non smette mai di mentire, nemmeno a se stesso. E così, come aveva fatto nelle psicosi di Pat e Tiffany ne “Il lato positivo”, anche in “American Hustle”, il cineasta si trova a raccontarci dell’uomo, del suo senso etico e morale in maniera meno diretta e forse più astratta del film precedente, ma che si posa con leggerezza e sapienza nel subconscio dello spettatore.

David O. Russell ci porta in questo mondo saturo e sgranato di fine anni ’70 con una regia frenetica, nervosa, dove la macchina da presa non rimane mai ferma e si accoppia con una sceneggiatura ad incastri, pressoché perfetta.

American Hustle è un quadro vivo e ritmato dell’umanità, americana ma non solo, dove la positività dell’agente DiMaso si scontra con il grigiore del mondo fatto di inganni, sotterfugi e del “homo homini lupus”, dove l’apparenza inganna anche lo spettatore che colpito dalla sfavillante messa in scena, si ritrova coinvolto in una profonda storia cinica, che riflette un’amara realtà.

Sara Prian

[03/01/2014]

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